Dalla Sicilia all'Italia, si può fare la cosa giusta in economia?

 di Giovanni Abbagnato – Ai Cantieri Culturali della Zisa di Palermo il dicembre scorso si è svolta la terza edizione della Fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili “Fa la cosa giusta! Sicilia”, una mostra mercato del consumo critico e degli stili di vita sostenibili.
La manifestazione – nata a Milano da un’idea della casa editrice “Terre di mezzo” – è l’unica organizzata da Parma in giù, con una sua precisa specificità, da un Comitato di soggetti sociali siciliani.
“Fa la cosa giusta! Sicilia”, oltre a presentare una vasta area espositiva di produttori di beni e servizi innovativi sul piano della responsabilità etica ed ambientale, proponeun vasto programma culturale il cui filo conduttore è stato rappresentato dalla riflessione su reti locali ed internazionali, attivate ed attivabili.
Detta riflessione è stata caratterizzata dai contributi di teorici e di operatori economici – locali, nazionali ed europei – in termini di innovazione di comportamenti – individuali e di sistema – in una prospettiva di alternativa ai modelli socio-economici dominanti.
Discorso impegnativo sul piano della credibilità, partendo da un’ipotesi alternativa da proporre, e non solo per la complessità oggettiva della materia economica, ma anche perché è innegabile il pregiudizio presente tra gli economisti “ufficiali” che li porta a racchiudere in un unico fenomeno – a loro avviso irrilevante, se non immaginifico – tutte le riflessioni teoriche e le realizzazioni pratiche non in linea con la sostanziale ortodossia economica che in questi ultimi anni lascia registrare un singolare andamento.
Ossia, sembra che, più che in altri tempi, l’economia delle produzioni e delle transazioni – quella che s’impone nella realtà concreta, in modo quasi monopolistico – segni un dominio, pressocché incontrastato nel panorama socio-politico internazionale, proprio dopo avere lasciato registrare una serie ininterrotta di drammatici insuccessi.
Sembrerebbe che per vincere la competizione sulla teoria economica bisogna procurare disastri economici a base di smembramento distruttivo di realtà produttive, finanziarizzazione selvaggia dei capitali, indebitamenti incontrollati, e spesso criminosi, di istituzioni bancarie, in non pochi casi salvate e confermate nel loro ruolo di riferimento, proprio da quel vituperato intervento pubblico.
Si, in questi casi, i più rigorosi interpreti dell’economia di mercato si ritrovano a proporre interventi statali da socialismo reale che – sembra – debbano essere riscoperti solo per socializzare debiti di dimensioni quasi incalcolabili.
Poi, gli stessi statalisti pelosi saranno i primi a richiedere ai governi, talvolta senza un minimo di ritegno, di ritirarsi dall’economia, non appena l’emergenza sembra finita, senza dire nemmeno grazie, ma, al massimo, lasciando volare qualche pezza di finanziere manigoldo, ma sempre professando le meravigliose sorti progressive dell’economia dell’accumulazione illimitata del capitale e del non limite alla sua redditività.
Poi, naturalmente, si può baldanzosamente veleggiare verso un nuovo disastro, dalle conseguenze devastanti, soprattutto per i meno abbienti, ma assolutamente aderente a quelle linee e a quei parametri che hanno creato altri disastri, almeno per tanti, ma non per tutti.
Ma nonostante queste inquietanti constatazioni, quella che sembra affermarsi è l’economia dell’egoismo materialista, il famoso interesse individualista del singoloteorizzato da uno dei padri classici – Adam Smith -che vedeva nascere ogni bene per la collettività, non dalla generosità, ma, anzi, dall’egoismo del birraio, del macellaio, del fornaio e dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi. Una contraddizione in termini dalla quale tanti mali sono sorti nel nostro mondo perché la comparazione degli interessi è materia molto complicata da indagare e si è sempre applicata in termini di potere imposto, spesso violentemente.
Non è un caso se nella prassi ordinaria di costruzione di modelli economici si parlava di prezzo del burro e dei cannoni e del potere reale di chi poteva stabilire il valore di questi due elementi.
C’è sicuramente della follia in tutto questo, ma nella crisi economica strutturale, camuffata in questi anni da esigenza di rigore monetario, sembra che la patologia possa assurgere a paradigma economico vincente.
Certo, è un fatto che l’economia ufficiale, quella iperliberista dei Milton Friedman e compagnia, professava che nel supermercato globale non serve che le persone parlino tra loro e, soprattutto, che si piacciano. Anzi, se non si piacciono e fanno qualche guerra, più o meno camuffata di processi di ristrutturazione delle economie, si muove meglio il volano dell’economia globale.
Come è un altro fatto inconfutabile che anche quella economia “più problematica” – che, però, non riesce nemmeno a riproporre, con la necessaria determinazione, delle credibili misure Keynesiane di intervento pubblico – sembra non tenere nemmeno in considerazione l’ipotesi che questa crisi che perlomeno dal 2008 attanaglia il mondo occidentale, con inevitabili conseguenze sull’intero mondo, possa non essere né ciclica, né strutturale, ma per usare categorie molto antiche, sovrastrutturale e, quindi, da affrontare con teorie di politica economica e strumenti attuativi nuovi.
Piuttosto, gli studiosi “ragionevoli” tendono a considerare – tutti insieme appassionatamente – piuttosto bislacchi i ragionamenti di coloro che si pongono il problema di un superamento radicale del modello di sviluppo affermatosi, catalogandoli come quei soggetti che un tempo erano chiamati fricchettoni, ossia persone piuttosto eccentriche, prive del tutto di senso pratico e che inseguono utopie, quando va bene da considerare anacronistiche, se non oltre il fantascientifico.
Tuttavia, il problema più urgente non sembra il dovere confutare, ideologicamente, i “sacerdoti” dell’economia, quella ritenuta seria e celebrata negli Atenei e nei talk show televisivi, sia pure con qualche distinguo non fondamentale.
Sembrerebbe più utile da consigliare a questi illustri studiosi – più o meno ancorati alla provvidenziale “mano invisibile” del mercato promessa dai classici – una qualche prudenza nel proporsi come portatori del verbo, date le loro responsabilità acclarate, soprattutto quella esiziale di avere fatto passare, nel tempo, un’idea fideistica dell’economia da considerare una sorta di meteorite inevitabile impostasi indistintamente su coloro che l’hanno determinata come su quelli sui quali incombe – ovviamente posti in posizioni e condizioni ben diverse – che si può provare solo a schivare, ma senza potere esercitare su di esso un controllo ed un indirizzo. Come se il meteorite – e tutto lo spazio in cui si staglia – non siano originati da politiche frutto di precisi rapporti di forza.
“Lo dice l’economia e allora non si può che adeguarsi….”. E’ questo il leitmotiv di tutti i governi che, più che costretti, sembrano responsabili, con la loro insipienza e mancanza di prospettiva, di un rapporto squilibrato con improbabili istituzioni sovranazionali, in realtà ancor più improbabili centri finanziari di compensazione di interessi, come l’Unione Europea, non una Federazione di Stati dotata di una sovranità propria e di un sistema condiviso di bilanciamento dei poteri istituzionali, ma un insieme di trattati in cui i diversi rapporti di forza originano da egoismi nazionali e finiscono per approdare, spesso, a risultati insensatamente disgreganti per tutti.
E così il meteorite irradia un’ossessione per forme sempre più stringenti di austerity che, quando va bene, riescono a puntellare un sistema, se non parzialmente e, comunque, sempre a danno di chi è più debole ed esposto alle turbative di chi allarga a dismisura la già vastissima platea degli esclusi, per la gioia di tutte le forme più devastanti di populismo.
In questo senso parlano chiaro i livelli di povertà – relativa ed assoluta – che si stanno innalzando in tutte le aree del mondo cosiddetto sviluppato, mentre nelle aree con un alto incremento della crescita produttiva, non si apprezza un innalzamento armonico del livello di vita della gente, ma, anzi, si palesa una qualità dello sviluppo decisamente preoccupante per il destino delle popolazioni interessate e dell’intero Pianeta.
Prendiamo il caso dell’Italia, inchiodata da anni ad una recessione inamovibile, da una desertificazione socio-economica di una vastissima Area del Sud del Paese– stavolta non frutto di previsioni, ma della certificazione ufficiale di importanti Istituti di ricerca come lo Svimez – ed un calo vertiginoso dell’occupazione giovanile che, ormai anche la provvidenziale solidarietà familiare comincia a non riuscire a mitigare.
La recente affermazioni del Ministro dell’Economia – amplificate entusiasticamente da suo Capo di Esecutivo – parlano di un’uscita dalla recessione nel 2015 con una crescita che può andare dallo 0,3 allo 0,7%, mente i consumi vengono considerati incoraggianti perché mantengono un andamento piatto.
Di contro il debito pubblico in rapporto al PIL sale da 133,7% al 135,9%, il tasso di disoccupazione – notoriamente sottostimato – veleggia oltre il 12,5% e i dati macroeconomici – con tutte le cautele con le quali si devono prendere tutti i tipi di comparazioni tra economie diverse – parlano delle performance – si fa per dire – italiane peggiori di quelle di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna.
Vogliamo mettere – e sarebbe la prima volta – che le previsioni del governo Renzi si avverino o, addirittura, raddoppino le loro cifre con il segno più? Anche in questo improbabile caso, cosa può cambiare di significativo nel nostro Paese, già al collasso nelle fasce di famiglie e persone che vivevano con difficoltà?
Sicuramente fosche previsioni che possono fare considerare chi le riporta un gufo del malaugurio, ma solo se qualche altro ammette di essere perlomeno scemo.
Le misure messe in campo sembrano sempre più inadeguate ad assicurare un minimo di coesione sociale, e i pur politicamente moderati strumenti – contrattuali e normativi – per una migliore distribuzione dei redditi, attraverso l’intervento sulle dinamiche salariali e sulla creazione di protezioni sociali, individuali e collettive, appaiono sempre più residui e configurabili come meri retaggi di un passato definitivamente tramontato.
E tutto questo sarebbe deciso da istituzioni finanziarie – pubbliche e private – che stanno all’origine di disastri immani, in tutte le latitudini, per via del possibile esaurirsi di un modello di sviluppo, probabilmente databile dalla prima rivoluzione industriale.
Un esaurimento probabilmente accelerato da una finanziarizzazione scellerata dell’economia che ha spostato – anche in modo indistinto – enormi capitali dalle intraprese produttive ad una sorta di roulette in cui si scommetteva su di un’economia di carta e si smembravano siti manifatturieri, già privati di investimenti sulla ricerca e l’ammodernamento dei processi produttivi che potevano immettere, anche in un sistema affaticato dal tempo, elementi di sviluppo di qualità nelle nostre società.
“L’economia è una cosa troppo seria per lasciarla fare agli economisti”. E’ questa una massima che, probabilmente, ha un qualche fondamento, oltre l’umorismo, tanto da venire attribuita a personaggi diversi del mondo economico, anche se quello che risulta più credibile – guarda caso – sembra l’economista, confuso e stralunato – Pier Peter – interpretato dal comico Antonio Albanese.
Come, a proposito di Soloni e Teste d’uovo dell’economia, è indicativa l’altra massima, attribuita, ma con i soliti dubbi di questi casi, all’economista Galbraith, che sosteneva chenon aveva paura delle crisi disastrose per gli affari perché ogni tanto non era male dividere i soldi dagli idioti.
Giusta considerazione se non fosse che i disastri di questi cataclismi economici li pagano drammaticamente e regolarmente quelli posti sotto – e non all’origine – del famoso meteorite.
Per questo, bisognerebbe cogliere più di qualche spunto dalla riflessione e dalla prassi economica mostrate in una già rilevante iniziativa di economia e società come “Fa la cosa giusta! Sicilia”, come di altre iniziative simili che rispondono, su sempre più larga scala, ad un tentativo di innovazione radicale del pensiero e della prassi economica.
Economia alternativa, principi della decrescita, produzioni e servizi responsabili, risparmi e riuso delle materie sono, come altri, temi e forme di una società in movimento che prova a mettere l’essere umano al centro degli ambiti della su esistenza, compresi i processi produttivi.
Non si tratta di affermare nuovi dogmi o altre rigidità da contrapporre a quelli dell’economia tradizionale.
E’ importante che anche la Scienza ufficiale scenda dai tanti olimpi che si è creata, soprattutto in materia economica, eliminando ogni supponenza nei confronti di chi contesta radicalmente un sistema socio-economico perché, al di là delle sue opzioni esistenziali, avverte che non regge più nemmeno rispetto a certe aspettative tradizionali.
Naturalmente uno spirito scientificamente laico non può non contemplare il fatto che si possa continuare a non apprezzare scientificamente una branca di studi come la cosiddetta decrescita – argomento del quale si è parlato a Palermo con vari studiosi come Paolo Cacciari ed operatori economici proveniente dall’importante assise internazionale di Lipsia – e che si può continuare a coltivare diffidenze sull’alternativa produttiva che possono rappresentare l’agricoltura biologica, come le energie alternative e il riuso produttivo dei beni.
Come non si può escludere la compresenza di modelli competitivi ed autenticamente cooperativi, all’interno di un contesto generalizzato di solidarietà e coesione sociale.
Ma quello che non si può ignorare è quanto ci dice il quadro socio-economico complessivo del mondo e il fiorire, in costante sviluppo, di iniziative di economia civile ed alternativa che sembrano confermare è che non è pensabile che non si concordi sull’eccezionalità della fase e della necessità, anche in economia, di lasciare i porti – ormai anche quelli alquanto insicuri – delle proprie convinzioni per uscire nel mare aperto delle nuove elaborazioni e sperimentazioni.
Anche in questo caso, ritorna il detto di quel tizio importante che, partendo dall’animo umano, aveva compreso l’ineluttabilità di certi processi e l’inutilità di insostenibili arroccamenti.
Allora – forse – ancora, “Così è…se vi pare”, anche in economia.

Giovanni Abbagnato