Diventa una caserma dei carabinieri la villa di Palermo dove fu latitante Riina

Il  covo di Totò Riina, la villa bunker immersa nel residence di Palermo, in Via Bernini,  da dove il Capo dei Capi si era appena allontanato il giorno dell’arresto, dopo 22 anni diventa un presidio dello Stato, una caserma dei carabinieri.

Si tratta di un complesso con ville con piscina, prati all’inglese, viali alberati, dodici dimor, alcune confiscate dallo Stato, una già assegnata come alloggio dei marescialli e un’altra come sede dell’Ordine dei giornalisti.

“Oggi lo Stato vince sulla mafia” ha detto il ministro dell’Interno Angelino Alfano che  ha partecipato alla cerimonia di inaugurazione. “Lo Stato è più forte della mafia” ha detto il ministro ” e lo sta dimostrando anche oggi”. “I mafiosi non sono solo degli assassini, ma sono anche ladri di futuro, speranza e di bellissime parole del nostro vocabolario come onore, famiglia e rispetto”.

Il ministro è stato accolto dal sindaco di Palermo Orlando e da alcune centinaia di persone che sventolavano bandierine tricolore. “Come fa a parlare di onore chi uccide – ha aggiunto – o di rispetto chi fa inginocchiare un commerciante per chiedergli il pizzo”. “Noi – ha concluso – vogliamo riprenderci il senso di queste parole”. Alfano ha poi ricordato le leggi approvate dal Parlamento contro la mafia come quella sul carcere duro e sulle confische ai patrimoni mafiosi.

Racconta Felice Cavallaro sul Corriere della Sera:

I costruttori furono i fratelli Sansone, indicati come copertura e padroni di casa di Riina che qui visse con la moglie Ninetta Bagarella e con i figli, brindando la sera della strage di Capaci ai bordi di una piscina che non c’è più. Trasformata nell’archivio della caserma. Un tetto a copertura. Un varco sotterraneo con porta blindata. Nell’arioso seminterrato. Proprio dove si trovava la camera da letto di Riina, oggi trasformata nell’ufficio del comandante, il maresciallo Ciro Musto. Accanto ad un altro armadio blindato dove adesso si custodisce l’armeria. Armadio, nel 1993, trovato vuoto. Come vuota era la cassaforte del primo piano, nel salotto convertito in sala riunioni. Allora lo scrigno a fil di parete doveva essere nascosto da un quadro. Mentre adesso campeggia solo l’acquerello incorniciato con i sorrisi di Enrico Montesano e Carlo Verdone nelle loro divise da carabinieri. Guardati a vista da una volitiva Gina Lollobrigida e un implorante maresciallo, Vittorio De Sica. Affiches cinematografiche, come quella di Rascel nei panni del corazziere, sono i sobri arredi di una caserma dove all’ingresso dominano le foto di Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, il maresciallo e l’appuntato uccisi da una autobomba con il fondatore del pool antimafia, il giudice Rocco Chinnici, nel 1983, davanti al palazzo di via Pipitone Federico dove morì pure il portiere Stefano Li Sacchi.

I MISTERI DEL COVO.  Il covo di Totò Riina non l´hanno mai perquisito «per non far trovare carte che avrebbero fatto crollare l´Italia». E la cattura del capo dei capi è stata voluta da Bernardo Provenzano dentro quella trattativa che, fra le uccisioni di Falcone e di Borsellino, la mafia portò avanti con servizi segreti e ufficiali dei reparti speciali dei carabinieri. Questo è quanto racconta Massimo Ciancimino, quinto e ultimo figlio dell´ex sindaco di Palermo, sui misteri siciliani.   Massimo Ciancimino racconta: «Una delle garanzie che mio padre chiese ai carabinieri, e che loro diedero a mio padre, era che nel momento in cui si arrestava Riina bisognava mettere al sicuro un patrimonio di documentazione che il boss custodiva nella sua villa». E ha aggiunto: «Provenzano riferì a mio padre che Totò Riina conservava carte e documenti di proposito con un obiettivo: se l´avessero arrestato avrebbero trovato tante di quelle cose, di quelle carte, che avrebbero fatto crollare l´Italia. Mio padre commentò con me il fatto dicendo che quello era un atteggiamento tipico di Riina. Secondo lui, conoscendo bene molti di questi documenti, sarebbero stati conservati apposta dal Riina con il solo fine di rovinare tante persone in caso di un suo arresto, visto che solo una spiata poteva far finire la sua latitanza».