Economia del Mezzogiorno, Busetta: “Nel Paese dell’ammuina lo sviluppo non è di casa”

C’è un un destino avverso che sta portando l?italia fuori dal novero dei paesi industrializzati e che rende difficile una ripresa sempre annunciata e mai veramente consolidata? Oppure il vero problema è che vi è il prevalere di forze sociali inadeguate che pensano di poter distribuire le risorse senza crearle? Che sia forse un sistema istituzionale arretrato, un dualismo economico mai risolto e, in fin dei conti, una classe dirigente e politica ormai fuori dalla storia che non riesce ad adottare le soluzioni appropriate per un rilancio possibile il vero problema? La seconda che hai detto, tanto per fare una citazione “colta”. Ed è anche l’opinione di Pietro Busetta, economista, presidente della Fondazione Curella che prova a porre al centro del dibattito le questioni ancora una volta con dibattiti e incontri nell’ambito della nota edizione delle Giornate dell’economia del Mezzogiorno inaugurate oggi il cui tema di quest’anno è “Dall’ammuina al nuovo ordine sociale”. Cos’è l’ammuina? E’ un’antica pratica in voga sulle navi della flotta borbonica: un comando che veniva impartito ai marinai e che consisteva nel far muovere la ciurma da una parte all’altra dell’imbarcazione simulando, così, grande agitazione ed un grande impegno.  Insomma, sembra dire Busetta, ci si muove da una parte all’altra, si fanno cose, si raccontano cose ma non si riesce a concludere  nulla. Restiamo tutti inchiodati al niente e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Soprattutto nelle aree più deboli del Paese. I fatti dicono per esempio che il Sud del Paese si sta spopolando come effetto di un mancato sviluppo dell’area: e lo spopolamento rappresenta la peggiore soluzione della questione meridionale per la nostra realtà e per il Paese.

“Le soluzioni potevano essere tre – osserva Busetta – la prima avrebbe dovuto prevedere uno sviluppo economico che assorbisse i circa tre milioni di potenziali lavoratori per avvicinare il rapporto da 1 persona su 4 che lavora 1 su 2 del Regno Unito; la seconda avrebbe previsto di assistere con un sussidio da 700 euro mensili coloro che fossero rimasti fuori dal mercato del lavoro, quei tre milioni nel Mezzogiorno o sette milioni nel Paese. Una soluzione, questa, che costerebbe però 25 miliardi per il Mezzogiorno o 56 miliardi per tutto il Paese, la qual cosa non è praticabile. La terza, infine, sarebbe quella di spopolare l’area in modo da abbassare il rapporto diminuendo il denominatore, portandolo dai 21 milioni di abitanti a 18 -19 in modo da portare il rapporto tra occupati e popolazione ad un valore più vicino 1 a 2 dei Paesi sviluppati. E questa – afferma il professore Busetta – è l’unica strada che si sta percorrendo, considerato che ormai da una decina di anni il numero di occupati del Mezzogiorno, è fermo su quello zoccolo duro dei sei milioni dai quali non ci si riesce a discostare”.

“Il Governo nazionale – conclude Busetta – è dunque chiamato a completare quelle condizioni di Stato minimo che consentano a tutta la Nazione di essere attrattiva. Tutto questo deve essere compreso dal Paese che deve anche riuscire ad avere quella visione di lungo periodo che serve. L’alternativa è la prosecuzione del declino che ormai da oltre vent’anni ci vede non più protagonisti ma figure di secondo piano nella scena mondiale. Per far questo è necessario intervenire con un processo di riforme che riportino il Paese nella posizione che per storia, civiltà e cultura si merita”.

A Palazzo Steri, di mattina, si è parlato, come ormai da tradizione, delle Università del Meridione, che si incontrano per discutere sui temi più attuali che interessano la loro missione e i loro rapporti con i territori. In un mondo che cambia velocemente ci sono luoghi e territori capaci di attirare maggiori risorse, sia economiche che umane, perché garantiscono le migliori opportunità di vita sociale e professionale. La Sicilia presenta criticità che sembrano lontane da essere risolte anche per un’assenza di programmazione che non riesce a fornire le linee guida. In vista di grossi cambiamenti strutturali che investono tutto il Mezzogiorno il confronto tra gli enti di ricerca fondamentali, come le Università, diventa spunto prioritario per il suggerire a tutti gli attori economici un possibile ventaglio di soluzioni di politica economica per trasformare anche la Sicilia in un territorio di crescita.

 

“Il tema di questa edizione è un po’ provocatorio – ha detto Busetta,  aprendo i lavori -. È Il significato del disordine come qualcosa che sembra un ordine organizzato ma che non porta a nulla, una nuova condizione in un momento in cui nuovi cambiamenti sembrano travolgere il pensiero dominante. Dopo eventi come la Brexit ci ritroviamo con un’Europa non dimezzata ma certamente diminuita. E abbiamo avuto un ulteriore nuovo schiaffo con le elezioni americane. L’Università deve avere un ruolo fondamentale e fungere da collegamento tra enti di ricerca esterni”.

“Bisogna investire su crescita, sviluppo, formazione e innovazione – ha sottolineato nel suo intervento Fabrizio Micari, rettore dell’Università degli Studi di Palermo -. Ogni territorio ha delle sue specificità: bisogna definire una volta e per tutte una strategia regionale che coinvolga le istituzioni. L’Università intende essere partner di questo percorso per contribuire alla formazione di queste idee. Ci sono dati che fanno riflettere, ad esempio, il rapporto tra gli studenti che vanno all’estero per l’Erasmus e quelli che, invece, scelgono la Sicilia è di 4 a 1; ogni anno, infatti, circa 900 universitari scelgono mete straniere e solo 250 di loro optano per l’Isola. In Sicilia, poi, solo due studenti su cinque godono della borsa di studio.  Ma ci sono anche dati confortanti – ha affermato Micari –, se in alcuni settori come l’Ingegneria, a cinque anni, il 93% dei laureati ha uno sbocco occupazionale (rispetto al 94%della media nazionale), altri corsi di laurea come Beni culturali che dovrebbero dare più opportunità in Sicilia, sfiorano appena il 50% delle possibilità lavorative post studi per i neo dottori. A Palermo, poi, il 95 per cento delle domande di partecipazione ai dottorati proviene dall’estero”, ha concluso il Rettore. 

“L’Università è stata il grande ascensore sociale dello sviluppo italiano – ha detto Adriano Giannola, presidente Svimez -. La nostra università è di livello e produce una ricerca di qualità che si piazza al quarto posto a livello mondiale, ma con risorse estremamente più ridotte rispetto alle altre. Dalla crisi in poi si è passati dal 66 al 55 per cento del tasso di iscrizione universitaria, un dato preoccupante”.

“Le Università del Meridione hanno un problema di attrattività – ha spiegato Fabio Mazzola, pro rettore Università degli Studi di Palermo -. Il dato medio siciliano, ad esempio, è che il 30 per cento degli studenti va a studiare fuori. Ci sono altre regioni del Mezzogiorno, come la Puglia (dove la media è del 40%), dove i dati sono più allarmanti. A Trapani due persone su tre si iscrivono fuori dalla Sicilia. Bisogna muoversi su un duplice binario: una sfida sul territorio ma anche una sfida per aumentare l’appeal dall’esterno, per avere la capacità di internazionalizzarsi. Ma come si può contribuire alla crescita? Attraverso i  rapporti con le imprese, ad esempio, con attività di tirocinio. I nuovi paradigmi della crescita sono la sostenibilità, la digitalizzazione e un’economia di condivisione”.