La direzione nazionale antimafia: c'è una strategia di Cosa nostra per colpire Confindustria Sicilia

Un corpo unitario, per nulla balcanizzato, pronto a reagire contro l’azione di contrasto portata avanti da alcuni e in particolare da Confindustria Caltanissetta, l’associazione di cui è leader Antonello Montante, e contro Alfonso Cicero, presidente dell’Irsap. L’analisi è dei magistrati della Direzione nazionale antimafia ed è contenuta nella relazione presentata oggi dal capo della Procura nazionale antimafia Franco Roberti e dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi. «Nell’ultimo periodo – si legge nella relazione – si assiste a una crescente reazione delle organizzazioni mafiose e dei suoi poteri collegati (come ad esempio quello dei colletti bianchi) contro l’azione di contrasto alla criminalità organizzata nonché contro l’opera di legalità posta in essere in questi anni dall’Associazione confindustriale di Caltanissetta e, in generale, da quella regionale» di cui è presidente Montante. Un segnale di fiducia nei confronti dell’imprenditore che sarebbe indagato per mafia a Caltanissetta e Catania. In attesa che facciano chiarezza sul caso i procuratori di Catania e Caltanissetta, arriva dunque il documento della Direzione nazionale antimafia che puntualizza: «Sembra – si legge – che la reazione di Cosa nostra, attuata su più piani, abbia come obiettivo quello di innalzare il livello di aggressione contro quel modello voluto anche da Confindustria Sicilia, che ha costituito, in questi ultimi anni, un elemento di forte discontinuità rispetto al passato».
«In tale contesto sembrano – si legge nella relazione – iscriversi gli atti intimidatori consumati ai danni del Presidente dell’I.R.S.A.P. (Istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive), Alfonso Cicero che, in data 5.8.2013, rinveniva nei pressi del pianerottolo della sua abitazione nissena una valigia contenente bombole di gas e bottiglie di alcol. Prima ancora, durante il mese di aprile, una lettera con all’interno alcuni proiettili e messaggi di minaccia a lui indirizzati era stata bloccata all’Ufficio Postale Centrale di Palermo».
Per il resto la relazione spiega come Cosa Nostra, nonostante sia stata fortemente colpita da indagini e arresti da parte delle forze dell’ordine, anche nel 2014 ha continuato a dimostrare una “costante vitalità” nelle varie parti del territorio siciliano nelle quali è presente, a cominciare dal Distretto di Palermo. Lo studio sottolinea come «tale analisi non coincide con indicazioni, anche autorevoli, di altri osservatori del fenomeno mafioso che teorizzano una sorta di “balcanizzazione” dell’organizzazione mafiosa Cosa nostra e un suo inarrestabile declino». «Deve peraltro confermarsi – scrive la Dna – che la città di Palermo è e rimane il luogo in cui l’organizzazione criminale esprime al massimo la propria vitalità sia sul piano decisionale (soprattutto) sia sul piano operativo, dando concreta attuazione alle linee strategiche da essa adottate in relazione alle mutevoli esigenze imposte dall’attività di repressione continuamente svolta dall’autorità giudiziaria e dalla polizia giudiziaria». Allo stato gli investigatori registrano una cooperazione di tipo orizzontale tra le famiglie mafiose della città di Palermo,«volta a garantire la continuità della vita dell’organizzazione ed i suoi affari. Tra questi in particolare devono segnalarsi un rinnovato interesse per il traffico di stupefacenti e per la gestione dei “giochi” sia di natura legale che illegale». «In tal modo l’organizzazione mafiosa nel suo complesso sembra, in sintesi, aver attraversato e superato, sia pure non senza conseguenze sulla sua operatività, il difficile momento storico dovuto alla fruttuosa opera di contrasto dello Stato ed aver recuperato un suo equilibrio”, conclude la Dna.
«Dalle indagini emerge come, a più riprese, Cosa nostra abbia tentato di rinnovarsi – si sottolinea nella Relazione – attraverso una conferma delle sue strutture di governo a cominciare da quelle operanti sul territorio di Palermo ed in particolare con riferimento alla commissione provinciale di Cosa nostra di Palermo. A conferma che anche nei momenti di crisi Cosa nostra non rinuncia all’elaborazione di modelli organizzativi unitari e a progetti volti ad assicurarne la sopravvivenza nelle condizioni di maggiore efficienza possibile. L’organizzazione mafiosa – osserva la Dna – fa in questa fase storica particolare ricorso al suo patrimonio `costituzionale´ e, dunque, alle regole circa la propria struttura tradizionale di governo che, anche a prescindere dalla presenza sul territorio di capi liberi muniti di particolare carisma, le consente di affrontare e, purtroppo spesso, di superare momenti di crisi quale quello che indubbiamente sta ora attraversando».
La Direzione nazionale antimafia auspica sanzioni più rigorose contro i mafiosi che tornano a delinquere. «Cosa Nostra – si legge – ha più volte dimostrato nel corso della storia la sua spaventosa vitalità e solo la costanza e la frequenza di efficaci azioni repressive possono impedirle di riorganizzarsi. In tale quadro è ad esempio necessario valutare come in concreto siano tanti quei soggetti già condannati per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., che, scontata la pena, tornino a delinquere e ad essere nuovamente arrestati, processati e condannati per il medesimo delitto». «A tale proposito – proseguono i magistrati – bisogna tornare a chiedersi se il legislatore non debba approntare, per le ipotesi accertate di reiterazione del delitto, un meccanismo sanzionatorio particolarmente rigoroso per escludere per un non breve periodo di tempo dal circuito criminale quegli appartenenti all’organizzazione mafiosa che dopo una prima condanna, tornino a delinquere reiterando in tal modo la capacità criminale propria e dell’organizzazione».
Altro punto è quello della lotta alla corruzione. Nel nostro paese la corruzione così come l’evasione è stata per troppi anni «non contrastata efficacemente ma quasi vista come una cosa insita nel sistema e necessaria per fare affari». Da qui il suo mancato efficace contrasto. Secondo Roberti il nostro paese ha sviluppato un sistema economico, ma anche culturale, che ha quasi «accettato» questo, non considerandolo mai «un reato grave. La mafia se ne e’ servita – ha poi aggiunto – spalleggiata da chi ha avuto negli anni interessi solo ad arraffare e a considerare lo Stato una proprieta’ privata. In questo – ha aggiunto Roberti – c’è la vera saldatura tra il corrotto e il mafioso. Penso – ha concluso – che occorra, invece, cambiare approccio a questo fenomeno che deve essere considerato un reato gravissimo perché non solo contro la morale ma contro lo stesso sistema economico perché scardina la libertà e la giusta concorrenza». 
Il contrasto alla mafia passa anche attraverso la cultura e la religione e «la Chiesa avrebbe potuto fare molto di piu’ e in passato si è portata dietro moltissime responsabilità per decenni di silenzi» ha detto il procuratore antimafia, Franco Roberti, illustrando oggi a Roma i risultati di un anno di lavoro della Dna, Direzione nazionale antimafia. Lo stesso Roberti ha, invece, lodato quella che ha rappresentato, dopo lo storico discorso di Giovanni Paolo II alla Valle dei Templi, la svolta portata da Papa Francesco che «oggi ha parlato, a piu’ riprese, apertamente di scomunica late sentenzie per i mafiosi». «Ricordo che fu Giovanni Paolo II, alla Valle dei Templi ad improvvisare il suo storico discorso e la sua denuncia contro i mafiosi perché rimase sconvolto da tante situazioni. Ma dopo quel discorso – ha proseguito Roberti – c’e’ stato troppo silenzio. Tutti conosciamo il sacrificio di preti come Don Puglisi e Don Diana ma quale reazioni ci sono state? Da cattolico mi sento di dire `zero´. Abbiamo dovuto aspettare il 2009 perché la Conferenza episcopale italiana qualificasse le mafie come una struttura di male. La Chiesa avrebbe potuto fare molto di piu’ ma per decenni, per secoli non ha fatto niente anche se oggi, con Papa Francesco, si sta muovendo».
Infine la caccia al boss latitante Matteo Messina Denaro che è «una priorità assoluta». «Ancora si sottrae alla cattura Matteo Messina Denaro, storico latitante, capo indiscusso delle famiglie mafiose del trapanese, che estende la propria influenza ben al di là dei territori indicati» e «il suo arresto non può che costituire una priorita’ assoluta ritenendosi che, nella descritta situazione di difficoltà di Cosa Nostra, il venir meno anche di questo punto di riferimento, potrebbe costituire, anche in termini simbolici, così importanti in questi luoghi, un danno enorme per l’organizzazione».
In generale la relazione sottolinea «la centralità delle indagini volte a porre termine alla latitanza dei capi dell’organizzazione, tema tuttora di straordinaria rilevanza», ricordando che «la cattura della totalità dei grandi latitanti di mafia palermitani ha certo costituito un segnale fortissimo della capacità dello Stato di opporsi a Cosa Nostra demolendo il luogo comune della impunibilità di alcuni mafiosi e la conseguente loro autorevolezza e prestigio criminale».