L’impolitico Claudio Fava in una Sicilia che non ha bisogno di simboli in transito

Claudio Fava è un bravissimo giornalista, scrittore e sceneggiatore, ma forse non è un politico. Meno che mai un politico di territorio, radicato e vivente in un luogo di cui ha davvero il polso.
Anni fa ci capitò di leggere un bizzarro volantino diffuso nelle bacheche dell’università di Catania, scritto in rosso e a mano da un ex-redattore dei “Siciliani” (la rivista fondata da Pippo Fava, il padre di Claudio ucciso dalla mafia nel 1984). In quel foglietto scriteriato si accusava Claudio Fava di avere abbandonato i giornalisti che animavano la rivista per lasciare la Sicilia e farsi i fatti suoi. Una critica non condivisibile; ognuno ha il diritto scegliere la propria vita e di andarsene dove gli pare, soprattutto se lascia una terra in cui gli hanno ucciso barbaramente il padre. Però, è vero, Claudio Fava a un certo punto se n’è andato via dalla Sicilia. Dopo alcune esperienze politiche fortunate e altre finite male, da siciliano di mare aperto ha seguito l’antico validissimo adagio, “cu nesci arrinesci”, e ha oltrepassato lo stretto.
Claudio Fava è un artista, e conosce bene la forza della poesia, della narrazione e perfino delle storie vere romanzate. Al riguardo, ricordiamo un episodio. Era appena uscito il bel film I cento passi (scritto da Fava per la regia di Marco Tullio Giordana) e a Catania, in un piccolo teatro del centro, si teneva un incontro pubblico con Fava. Quando un esponente della vecchia guardia comunista catanese, ben fermo allo zdanovismo, gli elencò le imprecisioni storiche del film, lui rispose giustamente che quella era un’opera con ambizioni artistiche e non la Treccani della mafia. Diceva qualche piccola bugia per raccontare grandi verità, insomma. Una cosa che uno scrittore sa bene.
In una prefazione a un libro (anche questo di qualche anno fa), Fava sosteneva di non amare i calligrafi che nutrono il culto della scrittura fine a se stessa e fanno bello stile. E sono sicuro che non sfuggirà a Fava neanche il concetto di responsabilità dello stile suggerito dal critico letterario Roland Barthes. Una responsabilità che non si ferma alla scelta delle parole, ma riguarda pure la loro urgenza e la loro verità (relativa, naturalmente).
Ma Fava pur non amando la calligrafia dei pennivendoli, in tema di calligrafia politica è un asso. Tra i migliori d’Italia. Dice solo cose giuste e belle che non si avvereranno mai. Demagogia e populismo raffinati e masticati da un palato di gusto, fino a essere irriconoscibili. Fava tira in ballo parole sempre perfette a sostegno di una politica già perdente per scelta, avulsa dalla realtà, leziosamente ideologica (e sarebbe meglio fosse idealista), superata. Quando gli è stato fatto osservare che forse non si sarebbe potuto candidare alla presidenza della regione, ha gridato al “golpe politico”. Certo, forse qualche bonaccione tra i suoi avversari avrà sollevato l’inciampo della residenza presa fuori tempo per toglierselo dai piedi. Questo non è bello, ma non autorizza nessuno a parlare di golpe politico. Nella vicenda, oltre al ridicolo, c’è qualcosa di più semplice: Claudio Fava non vive in Sicilia. Non risiede in Sicilia e ci stava andando solo per candidarsi alla presidenza. Con Fava si stava richiamando alla volta dell’isola un simbolo della legalità, uno scrittore di valore, un giornalista raffinato, ma con le stesse modalità con cui si sposta una bandiera piena di significato da un luogo a un altro. La Sicilia, però, non ha più bisogno di simboli in transito. Ha bisogno di gente e politici onesti. Ci è capitato di incontrare dipendenti di consorzi agrari onesti, funzionari pubblici onesti, ristoratori onesti, insegnanti onesti, bibliotecari onesti, imprenditori onesti, medici onesti, avvocati onesti, onesti geometri di piccoli uffici tecnici, tutti siciliani e tutti residenti in Sicilia. Ci sono perfino docenti universitari onesti, sovrintendenti ai beni culturali onesti. Per amministrare la Sicilia bisogna cercare tra queste persone, tra i residenti, non tra i simboli, quale che sia il loro valore. I simboli sono ormai sfiniti e servono solo a montare retorica. Quella retorica italiana – e per una volta, unitariamente, siciliana – che si serve di Pasolini per il pasolinismo d’accatto, di Sciascia per lo sciascismo d’accatto, di Falcone e Borsellino per l’antimafia d’accatto e per gli striscioni da corteo che recitano regolarmente che “le vostre idee cammineranno sulle nostre gambe”. Poi si vedono solo macchine e pochissimi che camminano a piedi, neanche fuor di metafora. Figuriamoci metterci sopra delle idee, proprie o di altri.
Se Claudio Fava vuole davvero amministrare la Sicilia, ricominci a vivere in Sicilia, a sentirne la puzza giorno per giorno, ne riconosca i profumi che ingannano, magari trasferendosi a Palermo, a Catania, o in uno di quei paesi bastardi posizionati tra la campagna alla malora e la città a rotoli. Non gli sarà difficile trovarli e fissarvi finalmente la residenza.