L’inscindibile legame tra Fondazioni bancarie e territorio

Pubblichiamo il testo dell’intervento di Gianni Puglisi, presidente della Fondazione Banco di Sicilia, al Congresso dell’Acri che si tiene a Palermo.

di Giovanni Puglisi

Le Fondazioni rappresentano un bene originario nelle comunità locali e realizzano in responsabile autonomia i propri scopi istituzionali, secondo le proprie determinazioni, operando prevalentemente nell’ambito dei territori da cui hanno avuto origine. Per le Fondazioni l’autonomia non è solo principio fondante […] ma è anche strumento e modalità attuativa. […] Le Fondazioni svolgono la loro attività nell’esclusivo interesse generale delle comunità di riferimento e rispondono del loro operato, interpretando le esigenze e corrispondendo alle istanze del proprio territorio, […] nel rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale (come declinato dall’art. 118, comma 4, della Costituzione), quali organismi in grado di esprimere capacità programmatiche e progettuali a favore della crescita culturale, sociale ed economica dei territori di riferimento.

Il testo che vi ho recitato è tratto dal Preambolo di quella Carta delle Fondazioni che abbiamo approvato all’unanimità nella nostra Assemblea del 4 aprile scorso e di cui il Presidente Guzzetti ha ribadito questa mattina l’importanza e il valore. Ho voluto aprire questa sessione, dedicata alle Fondazioni, con questo testo – che pure tutti conosciamo – perché trovo che esso, nell’alternanza tra il riconoscimento della vocazione filantropica delle Fondazioni e il ribadire la loro autonomia strutturale e gestionale, esprima perfettamente la “doppia natura” che caratterizza le Fondazioni di origine bancaria, frutto dell’incontro tra ‘pubblico’ – inteso in questo caso non come “Stato”, bensì estensivamente come res publica – e privato.

Le Fondazioni sono infatti “soggetti pubblici” da un punto di vista etico, per la genesi del proprio capitale, che deriva dai risparmi, dalla fatica, dai sacrifici dei lavoratori italiani e per le responsabilità morali che ne derivano, che impongono loro di operare e investire “nell’esclusivo interesse generale delle comunità di riferimento”, e contemporaneamente sono “soggetti privati” da un punto di vista giuridico, e come tali possono agire a servizio dei territori in cui si trovano e di cui sono espressione con dinamicità, flessibilità e autonomia decisionale.

Tale doppia natura, se da un lato rende le Fondazioni uno straordinario volano di crescita economica e strumenti impareggiabili di sviluppo sociale e culturale – poiché dispongono di un volume di risorse significativo nel contesto nazionale, perché possono intervenire tempestivamente nelle situazioni di urgenza e contemporaneamente mantengono la libertà di pianificare i propri interventi all’interno di un orizzonte temporale di medio o addirittura lungo periodo, perché, infine, incarnano in modo emblematico quell’incontro tra pubblico e privato che è ormai considerato indispensabile per l’innovazione – questa doppia natura, dicevo, dall’altra parte richiede di monitorare con estrema attenzione i termini in cui si declina la dualità. In particolare, occorre definire in modo ancora più stringente di quanto fatto fino ad oggi:

  • innanzitutto, quali debbano essere i rapporti delle Fondazioni con lo Stato (inteso in tutte le sue componenti, dalle Amministrazioni centrali agli Enti locali) o, in altri termini, quali debbano essere i limiti e i confini della sussidiarietà: è giusto che il Terzo Settore si sostituisca in toto allo Stato in interi settori del welfare, “trasferendo” – come ha scritto Giulio Tremonti nel suo libro La paura e la speranza – “quote crescenti di potere e di responsabilità dallo Stato alla società”?
  • in secondo luogo, quali debbano essere i rapporti con i privati e con il mercato, in particolare in seguito alla Legge n. 448 del 2001 (c.d. Legge Tremonti) che consente alle Fondazioni di utilizzare il proprio patrimonio per investimenti e non solo per erogazioni, purché coerenti con le stesse finalità sociali e civili che perseguono secondo il proprio statuto, come accaduto ad esempio nel caso della partnership derivata dall’acquisizione di parte del Capitale della Casa depositi e prestiti, oggi rappresentata dal suo Presidente Franco Bassanini;
  • infine, e forse più importante, quali siano oggi realmente gli interessi generali delle comunità di riferimento e se questi siano effettivamente perseguiti – e in quale misura – nell’operato delle Fondazioni.

Permettetemi, prima di cedere la parola agli illustri relatori di questa sessione, di soffermarmi qualche istante su quest’ultimo punto, ovvero sulla effettiva capacità delle Fondazioni di promuovere il benessere (inteso come contemporanea soddisfazione dei bisogni materiali e immateriali) di una comunità. Scorrendo la lista dei principali settori di intervento delle Fondazioni, tra i primi sette ambiti troviamo la Salute pubblica (8,4% del totale erogato), lo Sviluppo locale (9,1%), il settore Volontariato, filantropia e beneficenza (9,6%), Educazione, istruzione e formazione con il 10,8%, la Ricerca cui va il 12,6% delle risorse, l’Assistenza sociale con il 12,8% delle erogazioni, e infine, il primo settore di intervento è indiscutibilmente – con una quota pari al 30,2% delle risorse erogate – quello dell’Arte e delle attività e beni culturali.

Apparentemente, dunque – e a sostanziale conferma dell’autonomia di indirizzo delle Fondazioni, le cui scelte in questo caso appaiono significativamente diverse rispetto a quelle dello Stato – le Fondazioni considerano l’investimento nella cultura come il più rilevante allo scopo di rilanciare lo sviluppo complessivo e sostenibile dei territori, come peraltro recitano le parole d’ordine scelte dall’Acri per questo Congresso: Cento anni tra cultura e sviluppo.  

Chi conosca almeno un po’ la Fondazione che presiedo, o mi abbia già sentito parlare, sa bene quanto profondamente io condivida una simile impostazione. Oggi, dunque, eviterò di ripetere i dati che tutti voi conoscete e che rivelano quanto alta sia l’incidenza sul Prodotto interno lordo europeo – e in particolar modo italiano – del comparto culturale (inteso in senso ampio sia come attività, beni e servizi legati al patrimonio culturale, sia come industrie creative, sia – e in Italia e in Sicilia ciò ha un peso notevole – come turismo culturale); non mi dilungherò su come, nello specifico caso italiano, l’eccellenza del patrimonio culturale si rifletta in un’immagine del Paese collegata ad una più generale idea di bellezza e qualità della vita che – insieme alla qualità delle nostre produzioni – ha ricadute estremamente positive sulle esportazioni, enogastronomiche come manifatturiere. Prendendo in prestito, almeno parzialmente, le parole di Alessandro Crociata e Pier Luigi Sacco in un articolo pubblicato su Aedon, la rivista diretta dal Presidente Marco Cammelli, vorrei invece sottolineare una questione ben più sostanziale per la tenuta delle nostre economie nella cosiddetta società della conoscenza: in effetti, se “i fondamenti dell’economia postindustriale sono costituiti soprattutto da grandezze prevalentemente immateriali come l’investimento in ricerca, la produzione di nuovi brevetti e la diffusione delle competenze nell’uso evoluto delle nuove tecnologie”, ancor “più fondamentalmente” essi sono costituiti “da tutti quei fattori che favoriscono l’orientamento all’innovazione, la produzione e la circolazione sociale delle conoscenze”. Tali fattori coincidono in gran parte con la tutela, la conservazione, ma soprattutto il recupero e la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale: investire in questi settori, infatti, significa promuovere la formazione di capitale umano di eccellenza, dando la possibilità alle giovani generazioni di accedere al patrimonio di cui sono proprietari, e significa aumentare la coesione sociale, costruendo luoghi materiali e immateriali di incontro, di condivisione, di costruzione di un’identità comune.

È quanto ho cercato di fare in questi anni con la Fondazione Banco di Sicilia, – oggi Fondazione Sicilia – e in particolare con il restauro di Palazzo Branciforte a Palermo, che non a caso ho voluto definire, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – come un’opera di restituzione morale, prima ancora che culturale o urbanistica: infatti, prima e più che un palazzo storico, la mano al tempo stesso lieve e decisa di Gae Aulenti ha restituito alla città una parte della sua memoria; prima e più che la costituzione di un Museo, la Fondazione Sicilia ha voluto offrire a Palermo uno spazio vivo, in grado di ospitare – oltre alle collezioni permanenti – anche mostre temporanee e, soprattutto, progetti di lunga durata, come la scuola di cucina del Gambero rosso, profondamente legata al patrimonio culturale immateriale, italiano e siciliano, della Dieta Mediterranea. Nelle intenzioni della Fondazione, insomma, quest’intervento nel settore dell’Arte e dei beni culturali si configura più in generale come un intervento in grado di creare sviluppo, sia per i nuovi posti di lavoro che ha creato, sia per l’interesse turistico che speriamo susciterà, ma soprattutto perché garantirà ai cittadini palermitani un luogo di incontro, di confronto, di stimolo e di crescita personale e comunitaria.

Come potete immaginare, si è trattato di un intervento che si è protratto per un periodo medio-lungo (anche se “soli” tre anni di lavori qui a Palermo costituiscono un tempo record!) e ha mobilitato un’ingente quantità di risorse della Fondazione. È stata, questa, una scelta ponderata, basata sulla convinzione che, se la cultura può essere considerata davvero un motore determinante dello sviluppo, allora essa merita un’accurata e lungimirante programmazione di interventi qualificati, anche di grande o grandissima portata, piuttosto che essere oggetto di micro erogazioni cosiddette “a pioggia”, che operano una redistribuzione delle ricchezze nel territorio per lo più fittizia, perché non produce benessere di lunga durata.

         Lungi dall’esaurirsi in una molteplicità di finanziamenti di piccola entità e ancor più breve respiro, e scartata a mio avviso la possibilità che esse possano sostituirsi in toto a Stato ed Enti locali nel garantire le necessità assistenziali di base o nel risolvere i problemi strutturali del Paese, il compito delle Fondazioni – soprattutto nei settori della cultura e della ricerca – dovrebbe essere quello di attuare interventi del tipo che Alberto Martini ha definito a “effetto dimostrativo” (e altri di “merchant banking sociale” (Gian Paolo Barbetta), “creative philanthropy” (Anheier e Leat) o “venture philanthropy” (Bishop)): in altre parole, le Fondazioni devono agire dove non possono arrivare da soli né lo Stato né il mercato, investendo nell’ideazione e nella sperimentazione di politiche innovative che, per quanto declinate in un contesto territoriale locale, possano essere per qualità e significatività confrontabili con i più alti standard nazionali e internazionali.

Sta tutta qui, se mi permette, la differenza tra territorialità da una parte, intesa come radicamento e legame virtuoso delle Fondazioni con le proprie comunità di riferimento, e provincialismo dall’altra, nel senso dell’arroccata chiusura della propria visione nei limiti ristretti dei propri territori: e in un mondo globalizzato, il provincialismo è la peggiore delle sciagure. È capitato infatti negli ultimi anni, e capiterà sempre più spesso negli anni a venire, che il legame tra Fondazioni e territori cessi per qualche tempo di essere un legame esclusivo, e questo proprio nel più alto interesse generale della comunità: non dobbiamo averne paura. È quanto è accaduto, ad esempio, quando l’ACRI, nella profonda consapevolezza – recentemente ribadita nel Manifesto per il Sud – del fatto che uno sviluppo reale del Paese non possa prescindere dallo sviluppo del suo Meridione, ha scelto di costituire la Fondazione con il Sud, con l’obiettivo di correggere il divario economico e di sviluppo tra Nord e Sud del Paese proprio a partire dalla distribuzione del patrimonio delle Fondazioni (detenuto al settanta per cento da quelle situate nel Nord Italia, beneficiario di oltre settanta per cento delle erogazioni), nell’interesse generale del Paese e, nella media e lunga durata, delle stesse popolazioni del Nord.

In questo caso l’ACRI si è assunta il compito di agire come soggetto istituzionale, politico e progettuale davvero nazionale: ritengo debba farlo più spesso, ad esempio promuovendo la reazione dell’intero Paese di fronte a eventi che rischiano di metterlo in ginocchio, come da ultimo il terremoto che ha colpito l’Emilia-Romagna (e come è stato fatto, almeno in parte, per il sisma che ha devastato l’Abruzzo). Non fraintendetemi: non intendo in alcun modo trasformare l’intervento delle Fondazioni – che fino a pochi istanti fa ho auspicato essere programmato, progettuale, di lunga durata e ampio respiro – in azioni di tipo emergenziale e meramente assistenzialistico, né in alcun modo immagino di limitare l’autonomia decisionale delle singole realtà territoriali. Credo però fortemente che il futuro delle politiche delle Fondazioni sia nelle cosiddette partnership di sistema, le quali – come recita il Sedicesimo Rapporto sulle Fondazioni di Origine Bancaria – possono rendere finalmente “riconoscibile su scala nazionale una soggettività di sistema delle Fondazioni di Origine Bancaria e completarne così il profilo di ruolo e di responsabilità sociale nello scenario istituzionale del Paese”.

A tal fine credo che l’incontro di oggi, che vede confrontarsi il mondo politico (con la presenza degli Onorevoli Tremonti e Letta), quello degli investimenti delle Fondazioni (Presidente Bassanini), quello dei nostri partner privilegiati (il variegato universo del Terzo Settore qui rappresentato da Andrea Olivero), quello delle più avanzate scelte di partenariato di sistema (la Fondazione con il Sud, rappresentata dal suo Presidente Carlo Borgomeo), insieme ai Presidenti di alcune tra le più interessanti realtà di Fondazioni di Origine Bancaria (Miglio, Nuzzo, Cammelli), sia un buon punto di partenza per definire le future strategie comuni, allo scopo di costituire in modo sempre più forte uno di quei soggetti intermedi tra lo Stato e il singolo cittadino che la Costituzione della Repubblica italiana individua nel principio di sussidiarietà e che – soli – sono in grado di mobilitare davvero le risorse della società civile: le uniche in grado di rendere il nostro Paese nuovamente competitivo nella società della conoscenza.