Mafia, condanne per esponenti del clan Messina Denaro

 Il gup di Palermo Walter Turturici ha condannato complessivamente a 80 anni di carcere 6 esponenti del clan del boss latitante Matteo Messina Denaro. Per 5 l’accusa era di associazione mafiosa, uno rispondeva di favoreggiamento. A 17 anni sono stati condannati Domenico Scimonelli, ritenuto tra gli uomini più vicini al capomafia trapanese, colletto bianco che avrebbe reinvestito anche in Svizzera i soldi del boss, Pietro Giambalvo e Michele Gucciardi.
Rispettivamente 12 e 13 anni hanno avuto Michele Terranova e Vincenzo Giamabalvo, 4 Giovanni Loretta, accusato di favoreggiamento. Il processo si è svolto in abbreviato. L’accusa in giudizio era sostenuta dal pm Paolo Guido.

Tra i condannati c’è anche Giovanni Loretta, che giusto poche settimane fa aveva ottenuto la scarcerazione in seguito ad un ricorso in Cassazione dei suoi legali.

Fino al marzo 2010 il sistema di trasmissione della corrispondenza era stato gestito dai cognati del latitante, Vincenzo Panicola e Filippo Guttadauro, e dal fratello Salvatore. Sono stati tutti arrestati quattro anni fa nell’operazione Eden e così Messina Denaro avrebbe guardato al passato per rimpiazzarli. Un passato che si fa presente nella figura di Vito Gondola, nome storico della mafia trapanese, e giudicato separatamente. La sua posizione è stata stralciata per gravi motivi di salute. Come storico è il ruolo in Cosa nostra di Michele Gucciardi, boss di Salemi, che il postino di Messina Denaro lo aveva già fatto negli anni Ottanta. E “pizzinaro” in epoca più recente lo era già stato anche Domenico Scimonelli, originario di Partanna.

A loro si sarebbero aggiunti degli insospettabili come Michele Terranova, proprietario della masseria divenuta la stazione di posta. Parlavano di “mangimi”, “spargi-concime” e “forbici da tosa”, ma in realtà discutevano dei pizzini di Messina Denaro. Si incontravano all’aperto dove è stato complicatissimo piazzare microspie e telecamere. Sapevano di essere seguiti dagli investigatori ma, come diceva lo stesso Gondola, “non è che uno si… impressiona non deve camminare più… se dobbiamo camminare dobbiamo camminare…”.

L’imperativo era cautela. I pizzini sono arrivati, dal 2011 al 2014, tre al massimo quattro volte l’anno. Andavano letti e subito distrutti. Poi, toccava a Gondola distribuire gli ordini e attendere l’arrivo delle risposte che andavano preservate dagli occhi indiscreti. “…abbasta questo Vicè … questo vieni qua prendi il martello… zappa qua sotto…”, diceva Gondola a Vincenzo Giambalvo che aveva fatto “un poco di buco”. Un codice cifrato teneva sotto copertura i mittenti, anche se Gondola sapeva bene chi fossero gli autori (“… quello di Salemi … ha scritto…”). Così come conosceva la tempistica delle comunicazioni: “A quindici giorni… oggi ne abbiamo due… uno… trentu … uno… perciò giorno 16, giorno 15 noi ci dobbiamo vedere”. E lo sapeva pure Gucciardi: “…entro il 15 queste cose devono partire destiniamo la data per buono, il 14 va bene… il 14, alle case la dove ci sono le olive… tu a Mimmo gli fai sapere che entro il 15… prima… no giorno 15, prima di giorno 15 si deve incontrare con lui…”. Che aggiungeva: “Io me lo immaginavo che c’era qualcosa in arrivo con la stessa carrozza arrivaru”.