Mafia, Marcelle Padovani: "Falcone non avrebbe mai fatto il processo sulla Trattativa"

 

I ricordi, gli aneddoti, le analisi sulla mafia di ieri e quella di oggi che è diventata un problem solver per il sistema economico italiano, il ruolo e l’attività dei magistrati alcuni dei quali dicono di essere soli ma sono più vicini alla politica e ai media di quanto vogliano far credere, la bocciatura netta del processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-Mafia. Marcelle Padovani, giornalista francese, la professionista che ha intervistato Giovanni Falcone scrivendo con lui il libro “Cose di cosa nostra” parla per una mezz’ora buona nell’Aula magna della Corte d’appello, al Palazzo di giustizia di Palermo.

Una manifestazione organizzata dalla sezione provinciale del capoluogo siciliano dell’Associazione nazionale magistrati. Ad ascoltarla i vertici della magistratura palermitana oltre al presidente nazionale dell’Anm Rodolfo Sabelli, al capo della procura nazionale antimafia Franco Roberti. Tra il pubblico anche il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che sostiene con gli altri tra cui Nino Di Matteo, l’accusa nel processo sulla Trattativa. Marcelle Padovani parte da lontano, dal suo incontro con Falcone, dalla collaborazione con il magistrato trucidato dalla mafia. Per 22 anni non ha parlato e ora, convinta dai magistrati palermitani, ha deciso di raccontare e di parlare con franchezza: «Quello che avevo da dire l’ho detto in quel libro. L’essenziale sta lì. Non aspettatevi delle rivelazioni – dice subito -. Ma voglio cominciare da aneddoti, con dei ricordi e poi passeremo alle riflessioni». Ed ecco il racconto del primo incontro con Giovanni Falcone: «Ci siamo conosciuti con Giovanni Falcone nel novembre del 1984 quando si cominciò a parlare sulla stampa di un magistrato che stava interrogando un mafioso il quale si pentiva con lui e stava rivelando delle cose su Cosa nostra – dice -. Siccome ero in buoni rapporti con Luciano Violante, che conoscevo dai tempi del terrorismo, gli chiesi di introdurmi con Falcone. Cosa che fu fatta. E arrivai una sera del novembre ’84 in questo palazzo per la prima volta al secondo piano, erano le 19. Appena aprii la porta Falcone mi disse: devo andare all’Ucciardone per un interrogatorio. Di fronte alla mia aria desolata mi disse partiamo insieme domattina per Roma da Punta Raisi alle 7». Ma quella chiacchierata sull’aereo non fu possibile farla: «L’indomani mattina mi trovai a Punta Raisi e mi disse: Parleremo nel corso del volo. Ma non abbiamo potuto parlare perché eravamo accanto a Marco Pannella che era venuto a Palermo a consegnare la tessera del Partito radicale a Michele Greco – racconta ancora Marcelle Padovani -. Dunque era difficile avere un conversazione e Falcone mi disse: guardi, non si preoccupi vada a casa sua la faccio chiamare in mattinata. Io non ci credevo e cominciavo a innervosirmi e invece in mattinata qualcuno mi chiama e mi dice sono il comandante della Guardia di finanza e le do appuntamento in piazza Barberini a Roma tra mezz’ora. Lui fece il giro di Roma come per farmi perdere i punti di riferimento e alla fine atterrammo in una caserma della Guardia di Finanza dove ha aperto una porta e c’era un tavolo imbandito, un fuoco acceso e Falcone. Quest’incontro, come dire, sconcertante e un po’ straordinario. Cominciò lì una conversazione che durò almeno un paio d’ore e credo che ne siamo uscito l’uno e l’altro abbastanza contenti, abbastanza felici di sentirci vicini e amici. Da quel momento lì io l’ho chiamato e sono venuta a trovarlo ogni volta che scrivevo di mafia e poi gli mandavo gli articoli perché lui potesse rendersi conto di quanto scrivevo. E credo che effettivamente la nostra amicizia sia nata in quel momento lì. Poi ci sono state altre vicende come ben sapete. E c’è stato un editore francese che lo sollecitò a scrivere un libro in cui potesse raccontare tutto quello che sapeva della mafia. Lui mi fece avere quella lettera e mi chiese: cosa ne pensi. Io lo incoraggiavo a farlo e ogni volta che se ne parlava lui mi rispondeva: non è il momento, ci sono tante tensioni adesso in procura, oppure il Csm sta pensando a questo e a quello. Insomma ha sempre rimandato. Finché un giorno del febbraio del 91 mi chiamò da Palermo per dirmi: domani sono a Roma e ho delle grandi notizie da darti. E le grandi notizie erano che lasciava la Procura e che accettava l’incarico a Roma. Quando l’ho sentito mi è venuto uno scatto e gli ho detto: è il momento di fare il libro. E il giorno dopo gli mandai la scaletta del libro e cinque giorni dopo l’editore venne a Roma con il contratto». Ci sono poi i racconti dello stato d’animo di falcone in quegli anni terribili: «Falcone – dice la giornalista francese – parlava del senso di solitudine in cui lavorava sia rispetto ai colleghi, sia rispetto al Csm, sia rispetto alla politica sia rispetto ai media».

E poi i riferimenti all’oggi, a cosa avrebbe detto Falcone della situazione odierna: «Si rallegrerebbe – dice Padovani – per la creazione di alcune sue grandi intuizioni come la Procura nazionale antimafia, le procure distrettuale, il coordinamento migliorato delle forze di polizia e questa legislazione antimafia che è invidiata da altri paesi. Si rallegrerebbe Falcone: il fatto che il gotha dI cosa nostra sia in carcere fa capire che oramai». Mentre darebbe un giudizio negativo «certamente per gli errori e gli sprechi fatti. Per la sottovalutazione e nel dilettantismo i vari governi di destra e di sinistra». E poi una riflessione su cos’è la mafia oggi, quale la dimensione di lotta da parte dello Stato: «Ci rallegriamo – dice la giornalista francese – che i capomafia sono in carcere ma sappiamo che per uno arrestato ce ne sono dieci pronti a prenderne il posto. Il problema non è più soltanto la repressione ma quali sono le strutture portanti delle mafie, il loro radicamento nel territorio, e il fatto che presentano un modello vincente. Fino a quando lo Stato non sarà capace di fornire un modello alternativo, concorrenziale è difficile che le mafie vengano definitivamente sconfitte. Poi se si aggiunge, come dimostrano le operazioni giudiziarie recenti, le mafie dimostrano una straordinaria adattabilità all’evoluzione del capitalismo, fornendo servizi e soldi, garantendo la pace sociale nelle imprese diventando dei problem solver. Se si aggiunge tutto questo c’è da essere preoccupati per il futuro. Si va incontro alla probabile mutazione genetica delle mafie. Questo per dire che sicuramente oggi Falcone oggi darebbe attenzione alla prevenzione, al modo in cui si costituiscono le società. Una consigliera comunale di Roma Trastevere mi ha confidato che il 70% dei commerci romani sono in mano alla mafia». E poi il ruolo e l’atteggiamento dei magistrati oggi, di alcuni pubblici ministeri: «Non posso, anche se sono che può suscitare qualche polemica, non affrontare il problema dell’evoluzione del magistrato italiano – dice Marcelle Padovani – . Se Falcone era un magistrato solitario, oggi parecchi suoi colleghi pur dicendo di sentirsi isolati sono invece molto più vicini alla politica e ai mass media. Si sono lasciati prendere per mano dal protagonismo. E spesso hanno contribuito a costruire una autorappresentazione sacrificale del proprio lavoro diventando quello che mi son permessa di chiamare nuovi protagonisti dell’antimafia aiutati in questo dai media che ha continuato a incarnare su Cosa nostra e sulle mafie. Si sono orientati sulle teorie del complotto, dei retroscena e vorrei dire delle trame che probabilmente sono solo sulla carta. Ma per tornare ad alcuni colleghi di Giovanni Falcone oggi mi pare chiaro che il protagonismo ha come conseguenza la vulnerabilità: esponendosi in tutti i modi questi magistrati sono più sensibili alla politica e più dipendenti dai media».

C’è una differenza enorme tra questi magistrati, protagonisti dell’antimafia e Giovanni Falcone, anzi c’è «un abisso tra questi protagonisti dell’antimafia e Giovanni Falcone – dice Marcelle Padovani -. Lui era un magistrato pragmatico, non ideologico, che verificava anche i minimi dettagli. Mandò un poliziotto a verificare se a san Paolo del Brasile c’era una piazzetta con quattro panchine non per le panchine ma per essere sicuro che Buscetta per il resto non raccontava storie false. Forse si stupirebbe oggi Falcone del processo sulla cosiddetta Trattativa stato-mafia. La mia convinzione soggettiva è che mai Giovanni falcone avrebbe firmato il processo sulla trattativa. Penso che oggi sarebbe più vicino al pensiero del giurista Giovanni Fiandaca che ha scritto il libro la mafia non ha vinto. Per due motivi: perché il reato di trattativa non esiste. Tutti i paesi del mondo che lottano contro il crimine organizzato gli organi dello stato cercano il dialogo con i criminali, cercano degli spazi, o almeno cercano la possibilità di scambiare informazioni. Chi fa la lotta alla mafia cerca contatti con la mafia e tratta con la mafia. La conclusione di cui parlo io potrebbe essere: se gli imputati si sono avvicinati a cosa nostra per evitare il ripetersi delle stragi bene hanno fatto e si può dire bene la trattativa».