Onorare Borsellino significa continuare la sua battaglia

“Onorare Borsellino significa continuare la sua battaglia. Lo Stato e la società hanno gli anticorpi per colpire e sconfiggere tutte le mafie». Lo ha dichiarato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’anniversario della strage di Via D’Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. «Il diritto e l’ordinamento democratico costituiscono garanzie, oltre che irrinunciabili presidi di civiltà – ha detto il Capo dello Stato in una nota diffusa dal Quirinale -. Sta alla responsabilità di tutti procedere con coerenza e determinazione».

Per Mattarella la morte del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta  rappresenta una «ferita grave inferta nel corpo della democrazia italiana». Il loro sacrificio «è incancellabile nella memoria degli italiani», così come lo sono i «successi storici» del giudice palermitano (ottenuti insieme al collega Giovanni Falcone, ucciso due mesi prima) contro il «cancro mafioso». La sua azione e la sua personalità «costituiscono un’eredità ricca e positiva«, un patrimonio da impiegare »perché la vittoria sulla criminalità sia piena». 

Paolo Borsellino. La sua professionalità. E i suoi agenti: Emanuela, Agostino, Vincenzo, Walter, Claudio. L’Italia non dimentica

Anche il premier Matteo Renzi ha commemorato in un tweet il sacrificio del magistrato e della sua scorta. «Paolo Borsellino. La sua professionalità. E i suoi agenti: Emanuela, Agostino, Vincenzo, Walter, Claudio. L’Italia non dimentica #19luglio» ha scritto il presidente del Consiglio ricordando la strage di via d’Amelio.

Commemorazioni a parte, torna alla mente l’ultimo discorso pubblico pronunciato dal giudice siciliano, il 25 giugno 1992, meno di un mese prima della sua morte, durante un dibattito organizzato da Micromega alla Biblioteca Comunale di Palermo. E’ un Borsellino emozionato, quello che con toni concitati ricorda il collega Giovanni Falcone, ucciso dalla mafia a Capaci il 23 maggio di quel maledetto 1992. Arriva quando il dibattito è già iniziato, il suo ingresso in sala viene accolto da un fragroso applauso.

 

La verità però ancora non emerge su molti aspetti di questa strage.

Non emergono i motivi dei depistaggi, i motivi che hanno spinto piccoli pregiudicati a diventare falsi collaboratori di giustizia, perché ci sarebbero stati “suggerimenti” investigativi che hanno spostato l’asse delle indagini lontano da quelle reali.

Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che “quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni”.

Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare.

“Il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato e lo dico da figlia, mi fa vergognare”, ha detto Lucia Borsellino ai commissari antimafia, ai quali ha precisato: «Nel caso della strage che ha tolto la vita a mio padre e agli uomini della scorta non è stato fatto ciò che era giusto si facesse, se siamo arrivati a questo punto vuol dire che qualcosa non è andata. Ci sono vicende che gridano vendetta anche se il termine non mi piace».

Per poi concludere: «Mi auguro questa fase processuale tenti di fare chiarezza sull’accaduto, pensare ci si possa affidare ancora a ricordi di un figlio o una figlia che lottavano per ottenere un diploma di laurea è un po’ crudele, anche perché papà non riferiva a due giovani quello che stava vivendo. Non sapevo determinati fatti, è una dolenza che vivo anche da figlia e una difficoltà all’elaborazione del lutto».

Scrive Lirio Abbate su L’Espresso:

Oggi le indagini della procura di Caltanissetta hanno svelato che a premere il pulsante che ha fatto esplodere l’auto carica di esplosivo è stato Giuseppe Graviano, ma non si conosce il motivo che ha portato ad accelerare la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d’Amelio uomini delle istituzioni hanno parlato con i mafiosi, ma non si sa a cosa abbia portato questo “dialogo”. Si è scoperto che le indagini dopo l’attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie ai giudici, ad autoaccusarsi della strage e rischiare il carcere a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia.

I magistrati, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta dopo le sentenze definitive sulla strage) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che dal ’92 avevano impedito di ricostruire la trama dell’attentato. Un attentato che a 24 anni di distanza ci continua a far star male, come dice Lucia Borsellino, “per il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato” e questo ci fa vergognare.