Scoperti a Catania 500 falsi braccianti,arrestato anche dipendente Inps

Catania – Nell’inchiesta ‘Podere mafioso’, basata su indagini delle guardia di finanza di Catania avviate nel 2014 e concluse a dicembre 2016, ci sono oltre 20 gli indagati e almeno una decina di aziende ‘fantasma’, create, secondo l’accusa, unicamente per appropriarsi illecitamente di contributi pubblici per quasi un milione e mezzo di euro.
Per la Procura di Catania, diretta da Carmelo Zuccaro, i promotori della presunta truffa sarebbero Leonardo Patanè, noto come “Nardo Caramma”, detenuto nel carcere di Augusta per traffico di stupefacenti e arrestato, nel febbraio 2016, per la sua partecipazione al clan Laudani; Giovanni Muscolino e Antonio Magro, indicati come a capo dei gruppi di Giarre e Paternò della stessa cosca. Per i tre il Gip Santino Mirabella ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere.
Un contributo determinante, ritiene l’accusa, sarebbe arrivato anche da ragionieri, periti commerciali e da un dipendente Inps dell’agenzia di Giarre, Filippo Bucolo, che è stato posto agli arresti domiciliari. Secondo la Procura, in cambio di soldi che avrebbe chiesto a Patanè, lo avrebbe informato sull’esatto ammontare delle liquidazioni e seguiva da vicino ogni pratica amministrativa che lo interessava. Un ruolo importante avrebbero avuto alcuni familiari di Patanè: la moglie Daniela Wissel e i figli Orazio e Ramona, posti ai domiciliari. Come un ragioniere, Alfio Lisi, incaricato di formalizzare la costituzione delle aziende agricole, di iscrivere i falsi lavoratori e di predisporre le buste paga. In cambio, hanno ricostruito le Fiamme gialle, riceveva fino a 800 euro a settimana e aveva in uso un’autovettura.
Indagati anche i cosiddetti “reclutatori” di braccianti agricoli (Michele ‘Franco’ Cirami, Vincenzo Cucchiara, Agatino Guarrera, Francesco Gallipoli, Fabrizio Giallongo, Ettore Riccobono, Claudio Speranza, Vincenzo Vinciullo) e il loro “coordinatore” (Carmelo Tancredi), tutti posti agli arresti domiciliari. Si occupavano di ingaggiare i falsi braccianti agricoli e di recuperare, anche con violenza, la parte dell’indennità che spettava all’organizzazione e che ammontava almeno alla metà della somma riscossa che, vincolata da una pluralità di parametri, oscillava da un minimo di 3.000 euro a un massimo di 7.000 euro l’anno.