Sicilia, mafia: “operazione Grande passo”, le vittime pagavano senza fiatare

C’è un fedelissimo di Totò Riina tra i cinque fermati nell’operazione dei carabinieri «Grande passo» che ha decapitato i vertici mafiosi del corleonese, cuore antico di Cosa nostra. Antonino Di Marco, 58 anni, dipendente comunale, teneva le fila di questo pezzo della mafia che continuava ad avere come suo riferimento il capo dei capi detenuto al 41 bis. Un vero boss, secondo chi indaga, che avrebbe tessuto la sua rete tra opere pubbliche e vicende elettorali, a Corleone come a Palazzo Adriano il cui capomafia, Paolo Masaracchia, risulta tra gli arrestati.  Custode insospettabile del campo sportivo dove si decidevano strategie, estorsioni, attentati e la spartizione degli appalti, con l’imposizione della “tassa” del 3 per cento, Di Marco aveva una parentela che amava far valere: suo fratello, infatti, era l’autista di Ninetta Bagarella, moglie di Riina.

In manette anche Nicola Parrino, Pasqualino e Franco D’Ugo nel blitz eseguito dai militari della compagnia di Corleone e del gruppo di Monreale, coordinato dal procuratore Leonardo Agueci e dai sostituti Caterina Malagoli e Sergio Demontis. «Emerge uno spaccato – spiega il comandante del gruppo Monreale, tenente colonnello Pierluigi Solazzo – che è quello di un’associazione mafiosa ancorata alle tradizionali regole di Cosa nostra e con un giro d’affari consistente, frutto anche dell’imposizione del 3% sugli appalti». Intimidazioni e bottiglie incendiare contro gli operatori economici erano all’ordine del giorno, come lo erano le pressioni per il controllo delle opere pubbliche, soprattutto a Palazzo Adriano.
Nessuno degli imprenditori vittime del pizzo di Cosa nostra nel corleonese ha denunciato i loro estorsori alle forze dell’ordine. “L’associazione mafiosa – spiegano gli investigatori – ha continuato a mantenere saldamente in mano il controllo del territorio attraverso la pressante azione estorsiva nei confronti di imprenditori ed il controllo dei pubblici appalti”.
Le attività investigative hanno consentito, quindi, di accertare la consumazione di più episodi di pagamento, “contribuendo a delineare ulteriormente l’operatività della locale famiglia mafiosa”. I pagamenti, nella maggior parte dei casi, hanno mantenuto la canonica percentuale del 3% dell’importo complessivo del lavoro da eseguire. In altri casi, gli associati, oltre a richiedere il pagamento della somma di denaro, hanno imposto agli imprenditori anche l’utilizzo di manodopera e l’acquisto di materie prime presso imprenditori da loro indicati.
Quanto ai metodi utilizzati, al fine di convincere le  vittime alla cosiddetta “messa a posto”, la consorteria mafiosa ha  utilizzato il classico metodo intimidatorio della bottiglia incendiaria. Inoltre, per attirare l’attenzione degli imprenditori, gli affiliati hanno proceduto anche ad effettuare furti e danneggiamenti all’interno dei cantieri proprio nell’immediatezza dell’inizio dei lavori.
Per quanto riguarda la cassa le indagini sul sodalizio criminale di tipo mafioso operante tra Palazzo Adriano e Corleone hanno permesso di appurare anche che quella famiglia raccoglieva i proventi delle estorsioni all’interno appunto della cassa comune, gestita direttamente dal capo famiglia e utilizzata per finanziare le diverse azioni criminali nonché le piccole spese di tutti i sodali.