Siracusa, l'inesorabile declino del petrolchimico e della manifattura

Sembra una città. Semifortificata. E in fondo lo è: una città di metallo. Con le canne fumarie, i tubi che si estendono per chilometri e chilometri, gli agglomerati metallici come grandi condomini fumanti. Posata a cavallo di tre paesi, Augusta-Priolo-Melilli, in una provincia, quella di Siracusa, che guarda ancora a questa città con speranza in un rapporto di amore e odio continuo. Perché questa piccola metropoli, il polo petrolchimico più grande d’Italia, pur palesemente in declino rappresenta ancora per molti la speranza. Per tutti petrolio e chimica sono l’Industria con la I maiuscola che poco o nulla hanno a che fare con la manifattura.  Perché qui il petrolchimico non è manifattura e non è altro: è il tutto.  E da questo tutto dipende il resto. 
Quando si parla di industria a Siracusa si parla di petrolchimico che ha polarizzato e polarizza l’attenzione dell’economia locale. E tutto ciò resta vero nonostante il polo petrolchimico abbia perso, secondo stime sindacali, almeno settemila posti di lavoro  negli ultimi anni. «Negli ultimi otto anni – tra plastica, agroalimentare e Ict – si è registrato un mantenimento del valore aggiunto prodotto (appena il 7%) nonostante una leggera flessione sia del numero delle imprese che degli stessi impiegati – dice Paolo Sanzaro, segretario della Cisl siracusana -. Resta, quindi, fondamentale il peso fornito dall’industria del polo petrolchimico e metalmeccanico. Per sostenere, però, questo settore bisogna che i grandi gruppi escano dall’equivoco e dallo stand by e procedano con gli investimenti reali».
Sindacato e Confindustria si ritrovano perfettamente in linea su questo punto: quello degli investimenti.  Quelli di Lukoil per l’ammodernamento della raffineria rilevata da Erg (1,4 miliardi)  per il momento solo annunciati; quelli di Eni-Versalis per il rilancio del sito di Priolo nell’ambito della chimica; la costruzione  della piattaforma Vega B da parte di Edison per l’estrazione di petrolio al largo delle coste siciliane: un investimento di un centinaio di milioni che, dice ancora Sanzaro «potrebbe rilanciare il polo metalmeccanico di Punta Cugno dando lavoro ad almeno 600 persone». Dagli investimenti potrebbe arrivare certo una boccata d’ossigeno per la metalmeccanica e non solo ovviamente per l’impiantistica. Un settore che, secondo i dati elaborati da Confindustria Siracusa, conta in provincia  poco più di  550 aziende ma a parte un paio (la Irem e la Sim) che lavorano per i grandi colossi  del settore petrolifero soprattutto all’estero le altre sono tutte piccole e medie aziende . Sta di fatto che, al netto del petrolchimico, la meccanica rappresenta uno dei punti di forza della provincia : il 18,4%  delle 2.980 aziende del settore manifatturiero censite da Confindustria Siracusa sulla base dei dati di Movimprese. Sempre secondo i dati di Confindustria il settore manifatturiero dal 2007 a oggi ha perso oltre 400 imprese (da 3.412 del 2007 alle 2.980 del settembre 2014), gli occupati sono passati dai 5.189 del 2007 ai 4.500 del  settembre di quest’anno, il valore aggiunto rappresenta il 7% del totale provinciale ed è ora a 434 milioni a fronte dei 443 milioni del 2007.   Dati che apparentemente mostrano la fragilità del sistema manifatturiero siracusano ma che, spiega l’economista Adam Asmundo, vanno letti correttamente: «Se guardiamo singolarmente il peso delle imprese – spiega Asmundo – vediamo che c’è un tessuto ampio. E non è sempre così: c’è un tessuto industriale e dunque ci sono una mentalità e una cultura industriale. Non c’è, è vero, una crescita dal punto di vista dell’anagrafe industriale ma il settore nel suo complesso è abbastanza sano. C’è una serie di altre cose che sono attive e fanno parte del futuro. E queste cose arrivano perché c’è una vocazione industriale del territorio. Si prenda l’agroindustria: c’è oggi la necessità di produrre cose che sono pronte per il consumo e da quell’area arriva la risposta. Tutto ciò è possibile perché qui c’è una cultura industriale che permette anche,  in alcuni casi anche con risultati d’eccellenza, di inserirsi in settori che sono al di fuori della logica tradizionale e non necessariamente legati al territorio».