Startup editoriali nel 2014: l’informazione può portare profitti?

C’è una domanda interessante, nel contesto di startup e innovazione, che non ha una risposta semplice: come è possibile, oggi, creare una startup nel settore dell’informazione che sia anche profittevole? I dati a disposizione, per quanto concerne i giornali all digital italiani, fanno riferimento ai bilanci 2012, e disegnano uno scenario non idilliaco:

ItaliaOggi Dati

La situazione mostra che l’unico business di un certo successo sia quello di Dagospia, sostanzialmente l’unico a non produrre contenuti informativi. Per gli altri le prospettive non sembrano ancora rosee, e vanno dalle perdite costanti a un pareggio da sopravvivenza. I dati di Affaritaliani non sono disponibili, anche se l’utile 2011 era stato di 2500 euro.

A rincarare la dose del campanello d’allarme, uno studio del 2012, Chasing on the Net, sulla sostenibilità delle iniziative editoriali nel mondo con uno sguardo anche all’Italia, mostrava i soli casi di successo, per motivi che esulano però da un modello di business vincente, di Varesenews e Youreporter.

Nonostante questo panorama, e nonostante il morso di una crisi di cui, ancora non si intravede la fine, il business giornalismo digital sembra ancora suscitare l’appetito degli investitori. E lo mostra proprio l’Italia, con la nascita nel 2014 diPagina99.

Ma com’è possibile strutturare un modello di business sostenibile e garantire, al contempo, un giornalismo di qualità? I due obiettivi, infatti, non sembrano procedere di pari passo. E lo mostra anche il caso italiano, dove proprio Pagina99, che ha spinto molto sulla qualità dei contributi e sull’approfondimento tematico, ha dovuto chiudere dopo poco più di un mese l’edizione cartacea del quotidiano, evidenziando l’impossibilità di penetrare un mercato che, su quel fronte, non può più garantire un flusso di ricavi da pubblicità sufficiente a garantire redditività importanti.

Fondamentalmente, è possibile fare due riflessioni sul modello di business: uno sul lato della lettura e uno su quello della produzione dei contenuti. Per quanto concerne il primo aspetto, si tratta di introdurre forme di pagamento degli articoli, una volta oltrepassata una certa soglia. È il meccanismo del paywall, che può essere full, quando si bloccano totalmente gli accessi ai contenuti di un sito senza una sottoscrizione, oppure metered, quando viene messo a disposizione un budget di articoli (alla settimana o al mese) gratuiti, oltre i quali si deve procedere con il pagamento. In realtà, i dati concernenti l’utilizzo del paywall sembrano produrre effetti incoraggianti negli Stati Uniti, dove il New York Times registra un 12% dei ricavi totali derivanti da questo meccanismo. Non è però tutto oro quel che luccica, visto che l’interpretazione corrente è che l’introduzione di muri a pagamento sia uno strumento utile più a rilanciare le vendite del cartaceo che a produrre un vero e proprio reddito digitale, dati per altro confermati dalla National Newspapers Association, che segnala appunto come l’incremento dei ricavi derivi soprattutto da un prezzo più alto delle copie cartacee.

Come fare, dunque, per chi nasce ed è destinato a rimanere startup all digital?

Uno studio di Reuters del 2013 mostra un dato di partenza: la propensione al pagamento degli articoli online non supera il 10% del totale di chi fruisce di informazione sul web. Data questa situazione, un meccanismo promettente potrebbe essere quello del reversed paywall, in cui viene radicalmente modificata la struttura degli incentivi. Il lettore riceve, cioè, un budget iniziale che può essere consumato leggendo articoli, ma anche rimpolpato con una serie di comportamenti attivi e che producono esternalità positive per il giornale: dal cliccare su un’inserzione pubblicitaria al postare commenti su un articolo, dal condividere i contenuti della testata al segnalare eventuali errori contribuendo all’editing.

Spostandoci sulla struttura dei contenuti informativi prodotti in realtà non esiste un modello di business univoco che garantisca la sostenibilità del giornale, una volta superata definitivamente l’accoppiata vendite – pubblicità. Sempre più va affermandosi, infatti, una sorta di piattaforma ibrida che rientra sotto la categoria decisamente liquida (non me ne voglia Bauman, ma qui l’aggettivo ha accezione di vaghezza indefinita) di social journalism.

Che cos’è il social journalism? Sostanzialmente, rientrano nella categoria le esperienze che, a partire da FastCompany.com, hanno radicalmente modificato la produzione di contenuti informativi garantendo a una platea molto più vasta di una semplice redazione la possibilità di scrivere, per esempio attraverso un blog.

Forbes.com è il caso di un successo innegabile: è passato da 13 milioni di contatti unici al mese del 2010 ai 40 milioni attuali, proprio con la sua piattaforma dei 1000+contributors, in cui vengono aperti blog senza particolari difficoltà e si scrive sotto il marchio del giornale. In Italia, non è un modello troppo diverso da quello applicato dal Fatto Quotidiano.

Qualcuno storce il naso perché, in questo modo, si minerebbe alla qualità dei contenuti pubblicati togliendo il freno alla pubblicazione di informazione scadente, tanto più che il non pagamento dei contributori finisce col ridurre l’autorità del giornale stesso.

Ed Sussman, tuttavia, fondatore di FastCompany e CEO di Buzzr, sostenendo che il social journalism sia il futuro su cui comunque, impostare un modello di business, fa un’osservazione interessante: in realtà, piattaforme come Forbes, Medium o VoxMedia producono un effetto positivo anche sui contenuti, perché fanno sì che una testata non debba più produrre necessariamente degli articoli, spesso scritti da membri fissi della redazione, basati sul gossip dei matrimoni o delle scappatelle di una star, per fare un esempio. Chi scrive lo fa per la propria reputazione e per fare show-off e ha tutto l’interesse a occuparsi di ciò per cui si sente esperto.

In realtà, una piattaforma troppo open in cui, per esempio, vengano predisposti dei micro pagamenti in funzione di quanto un articolo viene condiviso o di quanti likes riceve, presenta il rischio di uno schema pump and dump, con un’inflazione di giudizi positivi legati a un pezzo che potrebbero non avere nulla a che vedere con la qualità dello stesso.

Sussman, perciò, ha scritto una sorta di manifesto, The New Rules of Social Journalism: dove propone una serie di regole e suggerimenti per combinare la dimensione open della piattaforma di informazione con la qualità dei contenuti, giungendo alla conclusione che, sempre più, oggi, una qualunque startup il cui core business sia un giornale on-line, debba avvicinarsi alle caratteristiche di una industria tech. Serve cioè una struttura (una redazione, in questo caso) snella, costituita da un mix intelligente di giornalisti, naturalmente, ma anche di ingegneri o tecnici. Serve chi sa scrivere il codice, insomma, per creare gli algoritmi più efficaci a veicolare il contenuto e per garantire una profilazione delle informazioni il più possibile granulare rispetto alle caratteristiche di chi legge.

Il contesto è dinamico al punto che qualcuno parla di una bolla delle startup dell’informazione, con sempre più piattaforme che nascono negli Stati Uniti e nel mondo. Quello che sembra chiaro, tuttavia, è che ancora si aspetti un modello di business univoco che possa applicarsi su scala più piccola di quella delle grandi testate. Forse, un modello neppure esiste e la conclusione potrebbe essere proprio questa. Senz’altro, però, il settore social journalism è di quelli vivi e letteralmente sul pezzo: lo dimostra un caso tanto più interessante quanto più si pensi che riguarda un piccolo paese come l’Olanda.

Qui, una startup lanciata da due giornalisti dell’NRC Handelsblad (una specie di Corriere della Sera dei Paesi Bassi) ha raccolto con il crowdfunding qualcosa come 1.7 milioni di dollari con 24mila sottoscrittori (niente male, per un Paese che ha solo 16 milioni di abitanti) presentando un modello di business interessante: una piattaforma con una piccola redazione in cui ciascuno dei membri possa crearsi, indipendentemente sulla piattaforma, un vero e proprio giardino dei contributori. Una comunità di riferimento, cioè, che possa dialogare costantemente con l’autore, aiutarlo nella produzione dei contenuti o correggendone gli errori. La cosa interessante è che De Correspondent, questo il nome del nuovo giornale on-line, non ha ancora nemmeno un sito operativo. È solo l’idea felice di due nomi forti del giornalismo nazionale, appoggiata da una massiccia campagna di comunicazione che ha visto una pubblicità anche sulla principale televisione olandese (vantaggio non di poco conto).

La strada del successo di una startup dell’informazione è impervia, ma non si può dire che manchi la speranza e il dinamismo. Senza dimenticare che l’Olanda è stata, però, il contesto della tulipomania, una delle prime bolle speculative della storia… Wait and see.

Di Luciano Canova, su Twitter come @foscocasantica