L'economia che c'è e ci fa

Ci sono molti e circostanziati motivi per sostenere che in tanti campi – anche di straordinaria importanza per i destini dell’Umanità – i nostri tempi sembrano presentare un profilo logico, per usare un eufemismo, molto contraddittorio.

Più prosaicamente si può dire che tutto – dalle strategie sugli equilibri geo-politici internazionali, alle scelte ambientali su scala planetaria – sembra non avere né capo né coda e che si proceda – oltre che a vista e, quindi, senza alcuna idea della prospettiva futura – in modo, almeno apparentemente, illogico.

Per esempio, sembrano del tutto incongruenti gli elementi di analisi economica sulla crisi mondiale vigente – convenzionalmente datata 2008 – e sul cui superamento effettivo esistono pareri sensibilmente discordanti, specialmente dopo il rallentamento repentino mostrato anche dalle grandi economie “di traino”, come quella cinese.

Ma più in generale, mentre i dati di fatto – e non quelli delle previsioni – insieme alla letteratura disponibile per la spiegazione della crisi, addebitano responsabilità enormi alla Scienza economica, in termini di sottovalutazione e di indicazioni devastanti, questa stessa Scienza economica – nella sua espressione dominante – si accredita, e viene accreditata, come in grado di rimediare ai disastri avvenuti, indirizzando lo sviluppo e prevedendo possibili, ulteriori problemi.

Eppure, nonostante queste evidenze relative ad una notevole discutibilità dell’economia dominante che suggerirebbero – quantomeno – qualche cautela, questa stessa economia – con i suoi guru accademici e le sue teste d’uovo che governano la finanza mondiale – sembra avere preso completamente il sopravvento sulla politica che – a sua volta indebolita dal suo degrado e dalla narcosi critica imposta alle società – ormai non si caratterizza più come quel complesso di decisioni e provvedimenti – possibilmente democratici – con i quali i governanti amministrano lo Stato nei vari settori e secondo diverse prospettive ideologiche.

La politica è ormai – in punta di fatto e di diritto – semplice esecutrice di indicazioni perentorie dei soggetti – pubblici e privati – – spesso coinvolti pesantemente nelle crisi – che “dettano” l’economia, mai in modo “asettico”, ma corrispondente ad una concezione del mondo fatta di un capitalismo irresponsabile, per causa ed effetti.

Inoltre, questa economia – oltre a imporre regole e ordinamenti spesso d’interesse prevalente di lobby dominanti – evidentemente è in seria crisi di elaborazione e gestione degli inevitabili contraccolpi socio-economici che corrispondono, puntualmente, ad ogni azione rilevante che agisce sulle risorse potenzialmente a disposizione dei popoli e sulla loro distribuzione.

Eppure, una certa idea fideistica dell’economia – oggi imperante nonostante i disastri già procurati dai modelli dominanti –viene da lontano ed ha già dato prova di un’eccezionale fallibilità.

La situazione è stata mirabilmente sintetizzata dallo psicologo-filosofo James Hillman, nella sua analisi sul potere, con una definizione netta : <<Oggi la nostra teologia è l’Economia>>.

Una teologia ritenuta infallibile, più di quelle che supportano ogni religione, ma che la storia dell’economia ci consegna con annotazioni che si potrebbero definire comiche se spesso non riguardassero autentici drammi, individuali e collettivi.

Nell’immediata vigilia del 1929 – ricordata come la più spaventosa crisi economica dei tempi moderni che trascinò nella disperazione la società americana – e a traino l’intero mondo industrializzato – c’era un illustre accademico di economia di Harward – Irving Fisher – che poco prima del 28 ottobre 1929, data che segna il crollo di Wall Streett, sentenziava: <<La borsa ha ormai raggiunto una notevole stabilità……prevedo che il mercato azionario sarà entro pochi mesi, molto più alto di quanto non sia ora>>.

Gli faceva eco Charles Mitchell – presidente della National City Bank e direttore della Federal Reserve Bank, dichiarando: “La situazione industriale negli Stati Uniti é assolutamente solida, nulla può fermare il movimento positivo del mercato”.

Ma d’altra parte, come diceva perfino un economista liberista radicale come Sergio Ricossa: <<L’economista non farebbe l’economista, ma vivrebbe di rendita, se conoscesse l’arte di prevedere>>. E non aveva un’idea molto diversa – almeno sulla presunta infallibilità dell’economia – un economista di scuola alternativa liberal come John Kenneth Galbraith se sosteneva che “La sola funzione delle previsioni in campo economico è quella di rendere persino l’astrologia un po’ più rispettabile”.

Il ragionamento di autocritica non fa una grinza, ma allora – verrebbe da dire – perché non si riconosce – concretamente – che l’economia è solo una costruzione interessata e – solo per fare un esempio – la storia della “mano invisibile del mercato” che regolerebbe tutto nell’interesse di tutti è una vecchia bufala alla quale non hanno mai creduto manco i governanti più conservatori?

Il problema riguarda chi si favorisce nel “gioco esistenziale” del dare e avere e, come si diceva una volta, chi stabilisce il prezzo del burro e dei cannoni, che è un campo di indagine fondamentale in cui si avventura un’altra Scienza come la Statistica, di cui l’Economia si serve per perseguire quelle che talvolta sono vere imposture, e sulla quale Winston Churchill dimostrava di avere idee molto chiare quando affermava: “Mi fido solo delle statistiche che ho provveduto personalmente a falsificare”.

Certo si avvertono delle stridenti contraddizioni anche rimanendo all’interno dei canoni classici del “laissez faire, laissez passer” – di cui gli economisti di grido attuali sono tanto innamorati da fare apparire il pioniere dei classici liberisti Adamo Smith come un inveterato statalista da economia pianificata – ma anche considerando quelle costruzioni che nel tempo dovevano rappresentare dei correttivi per una migliore redistribuzione delle risorse, finalizzata ad una maggiore coesione sociale.

Per esempio, per scendere dal globale allo specifico – come d’uopo in un ragionamento socio-economico – prendiamo in esame due campi diversi, ma anche convergenti e, comunque, importanti e di grande tradizione nella nostra realtà economica nazionale come il sistema bancario e il movimento cooperativo, entrambi attraversati da profonde crisi, ma, soprattutto, da una perdita d’identità rispetto a finalità e valori di origine.

Per quanto riguarda il movimento cooperativo, anche di tipo sociale – in molte realtà importante e virtuoso compromesso tra economia di mercato e promozione sociale – si prenda in esame lo scopo fondamentale di riunire i lavoratori per farli, in qualche modo, divenire imprenditori di loro stessi per creare lavoro regolare e complessive migliori condizioni di vita per fasce più ampie di lavoratori .

Una cooperativa di consumo, per fare un esempio, doveva essere un modello di azienda in cui si affermasse un principio di responsabilità diffusa per assicurare dignità e diritti ai lavoratori interni e migliori condizioni di acquisto, in termini di prezzi e di qualità dei prodotti, alle fasce meno abbienti di popolazione. Lo stesso dicasi – e si direbbe ancor di più – per delle cooperative sociali di servizi, per esempio sociali.

Utilizzando l’ingenuità come risorsa analitica, si può rilevare che non è dato capire cosa c’entrava tutto questo con delle Holding, sostanzialmente in mano a pochi soggetti, occupanti un numero enorme di addetti con un rapporto estremamente sbilanciato rispetto ai lavoratori soci.

Come si comprende ancor meno perché queste cooperative dovevano snaturare il loro stesso modello per fare scalate azionarie per entrare nel contraddittorio sistema bancario, ben al di là della tradizionale e contenuta attività di mutuo soccorso che il sistema cooperativistico poteva continuare a svolgere, ma solo in condizioni solidaristiche e non speculative.

E, proseguendo nel ragionamento, ci si chiede perché, a sua volta, il sistema bancario – che doveva essere a disposizione degli investimenti produttivi collegando risparmiatori ed imprenditori per realizzare intraprese economiche – si è confuso con il sistema delle Imprese per cercare di massimizzare i profitti e il valore delle azioni delle banche, talvolta al di là degli stessi profitti.

D’altra parte, è noto come da circa un lustro si è sempre più affermata la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia, ossia lo scellerato ribaltamento dei volumi degli investimenti sempre più massicciamente trasferiti dall’economia reale – quella che produce e conferisce valore ai fattori della produzione – alla cosiddetta “economia di carta” –che è quella che scommette sulle plusvalenze dei titoli.

Insomma, due esempi – sistema cooperativistico e bancario – non presi a caso per dimostrare che le scelte di senso non sono solo cascami ideologici o sentimentalismi da inguaribili nostalgici, perché – prima o poi – l’incoerenza nell’attuazione dei modelli economici produce effetti devastanti sul piano sociale ed economico.

Ma com’è nelle abitudini dell’economia dominante, nell’errore, in genere, si persevera perché – di norma – vengono chiamati a risolvere i problemi – talvolta anche drammaticamente presenti sul tappeto – gli stessi che li hanno procurati – o, comunque, avallati – con gli strumenti – tipo le banche – che hanno dato il peggio di loro nell’attuazione di certi indirizzi di politica economica, spesso diramati da sedi improprie che nulla hanno da spartire con il sistema democratico di cui si vanta anche il liberismo economico.

Su questo terreno i dati – naturalmente non osteggiati, ma solo ignorati dopo l’evidenza inconfutabile della tragedia – sono terrificanti se pensiamo che autorevoli stime parlano di titoli derivati che ammonterebbero oggi a circa 12 volte il Prodotto Interno Lordo globale mondiale mentre all’economia reale arriverebbe solo il 7% di questa massa enorme di denaro speculativo.

E’ giusto per parlare di casa nostra – e non di cosa nostra, argomento, purtroppo talvolta aleggiante sull’informazione economica nel nostro Paese – per esempio, per favorire discutibili scelte generali di organizzazione bancaria si sta strumentalizzando, in larga scala, la degenerazione gestionale in alcune banche di credito popolare e cooperativo cosiddette “di territorio”, ossia fortemente legate al tessuto sociale territoriale per ragioni storiche, oltre che economiche.

I noti fatti del crac di quattro banche popolari salvate dall’intervento del governo – presto polarizzati nella sola vicenda dell’Etruria per il coinvolgimento della famiglia della Ministra Boschi – hanno trainato, oltre alle polemiche politiche, la giustificazione e la rivalutazione di un recente Decreto Legge del governo, definito “Investment compact”, tra l’altro, di riforma delle banche popolari e del credito cooperativo.

Il Provvedimento – presentato dal Premier Renzi con la consueta enfasi e l’eccessivo utilizzo dell’accezione storica – dovrebbe rafforzare il sistema bancario italiano in termini di solidità ed efficacia, almeno a detta dello stesso Premier, sempre sobrio e misurato che al confronto il suo predecessore Berlusconi è un esempio di modestia e buon gusto.

La Riforma riguarda le maggiori 11 banche popolari e cooperative, quelle con un patrimonio non inferiore a 8 miliardi di Euro, obbligate a convertirsi in Società per Azioni e, quindi, ad abbandonare uno specifico regime previsto dal Testo Unico Bancario.

E’ questo un abbandono non di poca importanza perché significa perdere gli obblighi costituiti dal divieto per ogni socio di possedere più del 1% del capitale e del cosiddetto “voto capitario”, ossia di un voto a disposizione per ogni socio, qualunque sia il numero di azioni possedute per il principio “una testa un voto”.

Considerati il numero di banche obbligate a trasformarsi in SpA – undici su 70 – sembrerebbe un provvedimento che non interviene più di tanto sul sistema bancario territoriale costituito dal credito delle popolari e delle cooperative.

In realtà, è di tutta evidenza che il tetto patrimoniale imposto – piuttosto contenuto – limita lo sviluppo delle banche di territorio che se vogliono aumentare il loro capitale devono perdere le loro caratteristiche fondanti e disarmarsi rispetto alle possibilità di scalate di altre banche o soggetti privati che potrebbero ottenere il controllo della banca in poche mani, con l’allineamento al “normale” sistema bancario in cui sono presenti quei vizi – prima trattati – di eccesso di finanziarizzazione per incrementare i profitti e di presunta razionalizzazione che raramente significa riduzione dei costi di gestione caricati sulla clientela.

Questo rappresenterebbe un vero attacco al cosiddetto “Capitale Sociale”, ossia un credito basato anche sulle relazioni tra gruppi di persone, anche in diverse posizioni, che aumentano il grado di fiducia tra essi e possono anteporre alle strategie finanziarie per accrescere il profitto, un modello che favorisca la coesione sociale, la lotta alle diseguaglianze con precise scelte in campo etico.

Una semplificazioni interessata potrebbe insinuare che la vicenda dell’Etruria e delle altre tre banche – portate in condizione di bancarotta e poi salvate dal governo con fondi dello stesso sistema bancario come previsto dalla nuova normativa europea – giustifica il superamento del regime delle cosiddette banche di territorio, popolari e cooperative.

In realtà l’argomentazione risulta capziosa, nella migliore delle ipotesi, perché nelle vicende in esame ci troviamo di fronte a casi evidenti di gestione, da parte del gruppo dirigente, sicuramente dissennata, probabilmente anche fraudolenta, come sta accertando la Magistratura, ma come è stato già accertato anche a proposito di un grosso e prestigioso istituto bancario come il Monte dei Paschi di Siena.

Inoltre, proprio perché il territorio può rappresentare una grande potenzialità economica di sviluppo etico, ma anche un incubatore di relazioni di potere degenerate, la vera responsabilità va addebitata agli Organismi di controllo – Banca d’Italia e Consob – che, al di là dell’inevitabile balletto di responsabilità che lascia sempre parecchio perplessi, evidentemente non hanno assolto ai loro compiti di garanzia attraverso un sistema rigoroso di controlli.

La razionalizzazione dei servizi bancari non richiedono necessariamente grandi concentrazioni dalle discutibili gestioni, ma magari l’efficientamento dei suddetti controlli a garanzia di azionisti e correntisti – fondamentali nel mondo del credito – e dei correttivi che consentano al mondo del credito popolare e cooperativo di rispondere alle inevitabili insidie del tempo che passa e richiede ragionevoli adeguamenti, ma senza snaturare i principi fondanti di un credito vicino al territorio e, possibilmente, solidale e socialmente responsabile.

Alle banche popolari e cooperative può succedere quello che capita ai bambini quando sono obbligati a diventare grandi, inevitabilmente ne prendono i vizi che, sicuramente, sono ben più gravi delle loro, non trascurabili, mancanze.

Eppure l’economia – quella seria che indica, prevede, innova, razionalizza, sviluppa – richiede e impone le grandi concentrazioni bancarie, quelle che, nonostante siano in linea con i dogmi dell’economia dotta e realista, non riescono ad evitare al loro interno molto più di quello che può capitare in una piccola banca quando tradisce dei valori propri del capitale sociale, non perché non si è abbandonata abbastanza alla “mano invisibile” del mercato, ma solo perché alcuni lestofanti – lautamente retribuiti – hanno deciso di fare giochi spregiudicati mettendo come posta la sicurezza, la fiducia e perfino i sogni e le speranze di tanta gente per bene e parsimoniosa.

Per il resto, tante altre domande assalgono le persone comuni sui troppi fatti negativi che intervengono pesantemente sulla loro vita quotidiana e sul loro futuro, ma che la dottrina economica spesso consegna come fatti ineluttabili imposti dal solito destino “cinico e baro”.

A quel punto si alza una sorta di cortina fumogena fatta di ragionamenti che spiegano perché è importante e inevitabile fare certe cose e non ci sono più domande da fare anche perché, come diceva qualcuno: “Quando un economista vi risponde, non ci si ricorda più che cosa gli avete domandato”.