L'antimafia dei buoni e i buoni dell'antimafia

Non c’è dubbio che quando si fanno delle dichiarazioni su temi e contenuti oggettivamente importanti, la possibilità di trovare audience aumenta esponenzialmente secondo la posizione che si occupa e il contesto temporale in cui ci si trova ad esternare.

Spiace dirlo, ma spesso da più parti si attende che le cose si rivelino da se, prima di dichiararle. A quel punto, come si suole dire, è meglio che niente l’evidenziare quanto fino a quel momento veniva non considerato, se non occultato in varie forme.

Tuttavia, in questi casi di ritardata scoperta dei problemi, già buona parte del danno è fatto e il valore concreto di certe dichiarazioni è inversamente proporzionale al clamore che suscitano, soprattutto nelle platee che in passato sono stati spettatori tanto muti, “responsabili” e “ragionevoli” da alimentare il circo conformistico, spesso presente nel nostro Paese, a tutti i livelli e ambiti.

In ogni caso e beninteso, è importante che si facciano ” operazioni verità” anche da parte di coloro che, come si suole dire, “contano”.

In questo senso, vanno salutate con soddisfazione le dichiarazioni del Presidente del Senato Grasso – ex Procuratore nazionale antimafia – che parla chiaramente di “un’antimafia che sappia guardare al proprio interno e abbandoni sensazionalismo, protagonismo, pretesa primazia di ogni attore….” per poi proseguire sollecitando un rigore da adottare sul piano dei comportamenti, anche di tipo economico.

Tutto utile? Sicuramente si, come assunzione di consapevolezza e monito diffuso. Tutto giusto? Forse, no perché le affermazioni di principio, se vogliono assumere il valore di indicazioni determinanti per modificare situazioni non apprezzabili, devono scendere sul terreno della valutazione concreta di soggetti ed attività.

Pertanto, non si può generalizzare, ma adottare i termini del rigore dell’analisi per affrontare correttamente e responsabilmente il tema del cambiamento di gestione delle attività per un contrasto concreto delle mafie.

Diversamente, si afferma il “pregio” italico rilevato da Ennio Flaiano quando diceva che “gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso del vincitore, anche inteso come tendenza che si afferma e rispetto alla quale tanto più si è sottovalutato il problema a tempo debito, tanto più bisogna gridarlo con veemenza a tempo, talvolta scaduto.

Del pari, si conferma un’altra tendenza italiana che – per esemplificare in modo estremamente semplice – è quella di volere giocare la schedina del Totocalcio – fin quando esisteva – quando le partite sono già finite e i risultati sono noti, in modo da aggiudicarsi il premio del consenso quando non si rischia nulla.

Chi può contare di più nella formazione delle opinioni, oltre che delle coscienze – i cosiddetti opinion leader – è difficile rischino l’originalità di una valutazione sgradevole ai più mentre certi comportamenti – anche discutibili – si osannano.

Infatti, di norma, l’ingrato e pesantissimo compito, anche sul piano personale, di dire che il re, se non è nudo é in mutande, spetta a certi carneade qualsiasi, magari molto impegnati sul territorio.

Sono spesso questi personaggi – comprimari per vocazione, perché credono nella forza del collettivo – che impegnati come sono ad inseguire fatiche, piuttosto che prestigio, finiscono per crederci veramente a quello che fanno.

Per questo, talvolta e loro malgrado, trovano doveroso avvertire per tempo di certi atteggiamenti e situazioni – su episodi specifici, ma anche solo tendenze – che, se non sono devastanti, presentano, però, molti rischi per la reputazione di quel mondo dell’impegno sociale che considerano decisivo per la liberazione delle nostre società e l’avvento di una condizione sociale più giusta e pacifica.

Allora, a quel punto, per i malcapitati che – anche con molta fatica – rivelavano qualcosa di spiacevole in riferimento a quella che è anche la propria storia, arrivavano, pesanti e sdegnate, le accuse di rompere il fronte dell’antimafia, di non avere rispetto, ecc. ecc. ecc..

Non parliamo se ai carneade di cui sopra – che per indole o scelta non hanno tempo per curare gli aspetti della diplomazia – capita di evidenziare l’inopportunità di certe dichiarazioni di rappresentanti delle Istituzioni, ammalati di esclusivismo dell’antimafia a favore di alcuni soggetti – guarda caso, spesso i più forti mediaticamente.

Per certi versi, è ancora peggio se i carneade – hanno anche speso qualche tempo e fatica per operare la saggia abitudine di inquadrare storicamente ogni fenomeno sociale su cui si vuole intervenire e se , sulla base di qualche studio, si permettono di confutare certe avventate ricostruzioni nelle quali relatori – sia di parte istituzionale che associativa – fanno coincidere l’inizio dell’antimafia in Sicilia – grosso modo – da quando si sono cominciati a impegnare loro o i loro idoli mediatici.

Non parliamo dello strabismo nel valutare gli strumenti legislativi ed amministrativi per operare con misure di solidarietà per i familiari delle vittime di mafia e di finanziamento di alcune realtà associative antimafia, talvolta con previsione diretta in articolo di legge.

In questo senso, non si può non partire dalla triste constatazione di come spesso in questi casi c’è stato il silenzio generalizzato di politici e giuristi sull’evidente deroga a principi fondanti del diritto come l’astrattezza e l’imparzialità della norma.

Nel 2005 fu dato alle stampe dalla Cooperativa sociale Solidaria di Palermo, un libro dal titolo emblematico – “Solidarietà ad personam” – che affrontava, dati alla mano, l’imbarazzante tema di una Legge della Regione Siciliana – la n. 20 del 13 settembre del 1999 – snaturata in pochi anni con ben 21 norme, quasi tutte introdotte successivamente per estendere o instaurare benefici e previdenze per vittime di mafia e per soggetti organizzati nell’impegno socio-culturale antimafioso, con individuazione diretta.

Un libro – tanto scomodo quanto documentato – che avrebbe “meritato” almeno qualche reazione sdegnata, quanto meno utile per innescare un dibattito in tutto il movimento antimafia.

Ma anche in quel caso, a parte qualche privato imbarazzo, si chiuse attorno alla denuncia operata da quel libro un conformismo, francamente incredibile, considerando che la degenerazione clientelare di un percorso legislativo antimafia era stata certificata dai firmatari bipartisan della Legge n. 20 – l’On.le Forgione e l’On.le Granata – che scrissero le prefazioni in quel libro-denuncia.

Si chiuse così nel silenzio sostanziale un’occasione di crescita del movimento antimafia siciliano, in termini di vera alternativa al sistema vigente, e, naturalmente, più di qualche diffidenza toccò subire ai fautori di questo chiarimento.

Anche sul piano della progettualità le cose non sono andate sempre bene e, per esempio, si poteva mettere in croce un programma di opere pubbliche di un qualsiasi Ente Locale perché non abbastanza trasparente, ma si glissava – stavolta nemmeno imbarazzati, ma semplicemente non curanti – su di un programma come, per esempio, il PON Sicurezza, redatto per attivare strumenti per l’affermazione della legalità, ma intriso di eccessiva discrezionalità, probabilmente perché rivolto a soggetti socialmente meritori.

E dire che dovrebbe essere chiaro, soprattutto a chiunque si occupa di legalità, che la trasparenza amministrativa non è un optional, ma l’applicazione ordinaria di elementi fondamentali contenuti in quei principi giuridici dell’astrattezza e dell’imparzialità sopra richiamati, anche – e soprattutto – in presenza di soggetti interlocutori, cosiddetti “buoni”.

Purtroppo, tanti errori del genere si sono diffusi e sono sembrati tollerabili ai più perché alcuni soggetti organizzati – anche meritori – si sono auto-considerati “buoni per definizione” senza l’obbligo di doverlo dimostrare ogni giorno e in ogni atto o azione, ma – evidentemente -sulla base di una “nobiltà etica” di origine e di meriti acquisiti definitivamente.

Quando si usa l’espressione “cultura della legalità” non ci si dovrebbe riferire a forme, più o meno ingenue, di generico buonismo, ma ad una precisa adesione a codici etici e comportamentali e a principi giuridici e a procedure amministrative – validi per tutti – che non per caso rappresentano nella migliore letteratura giuridica ed istituzionale, un patrimonio morale e civile irrinunciabile.

Un atteggiamento culturale bifronte – secondo chi era il soggetto a cui ci si riferiva – non era giusto e sostenibile, infatti, a proposito di “buoni”, nel 2014 la Casa Editrice Chiarelettere diede alle stampe un romanzo del noto giornalista Luca Rastello, purtroppo recentemente e prematuramente scomparso, apprezzato corrispondente “di razza” dai Balcani, dal Caucaso, dall’Asia centrale e dall’Africa e dall’America de Sud.

Rastello – giornalista e scrittore con all’attivo numerose pubblicazioni tradotte in diverse lingue – fu anche operatore del Gruppo Abele e direttore di Narcomafie, quindi uomo di sensibilità sociale al di sopra di ogni sospetto che, però, ad un certo momento decise di affrontare lo scomodissimo tema della “retorica del bene”.

Per affrontare questo tema delicato, utilizzò la sua capacità di indagare contesti e situazioni complesse, ma anche la sua esperienza di impegno sociale personale che rivelava, oltre la sua lucidità intellettuale, la sua fatica appassionata nell’evidenziare delle contraddizioni con un romanzo definito da qualche critico “vero e spietato” che era comunque un atto di amore verso quel mondo della solidarietà che gli apparteneva e per questo voleva preservare da qualsiasi tipo di degenerazione.

Qualcuno annotò da cronista che Luca Rastello gli attacchi personali subiti e la riprovazione pubblica conosciuta dopo la pubblicazione di questo libro, non li aveva ricevuti dopo alcuni libri e reportage in situazioni drammaticamente complesse, in mezzo a guerre combattute in modo cruento, ma anche con le azioni di propaganda per bloccare i giornalisti indipendenti.

Il conformismo è un male sociale da cui nessuno si dovrebbe e sentire immune, ma che spesso trova applicazioni rigide e connivenze diffuse, specialmente su questioni che dovrebbero essere edificanti e che – per un malinteso senso di protezione di soggetti ed organizzazioni meritorie – vengono escluse da valutazioni rigorose che dovrebbero aiutare a preservare valori ed esperienze.

Purtroppo, talvolta così non è e in questi casi quella capacità dell’associazionismo di guardarsi al proprio interno – che il Presidente Grasso, come altri, auspicava, forse con insufficiente tempestività – potrebbe aiutare a rivelare errori dettati da sostanziale incoerenza con i valori di riferimento e incapacità di farli vivere nella loro pregnanza etica.

Probabilmente, però, non va nemmeno bene la retorica in senso opposto quello che libera generiche criticità e indicazioni di principio perché ormai il ritardo acquisito richiede di evitare generalizzazioni e di entrare nel merito dei comportamenti.

A richiami di pretesi errori di valutazione e di comportamenti, non consoni agli obiettivi dichiarati, debbono corrispondere precisi riconoscimenti degli errori stessi e adozione di nuovi indirizzi comportamentali che caratterizzino un’’antimafia – speriamo sempre più sociale e meno mediatica – che deve essere sempre pronta a mettersi – e ad essere messa in discussione – bandendo dal proprio DNA associativo le chiusure – a riccio e aprioristiche – rispetto alle critiche e lasciando ad altri soggetti – ormai del tutto screditati – le “scomuniche” inflitte a chi “non canta nel coro”.

Forse, un associazionismo che pratica quella capacità di guardarsi dentro di cui parlava il Presidente Grasso, non deve preoccuparsi dei Luca Rastello e di altri meno conosciuti che hanno ritenuto, ancorché faticoso, doveroso “non cantare nel coro”.

Probabilmente è meno gratificante, ma più conducente, avviare un processo di assunzione di consapevolezza dei rischi del conformismo – più o meno interessato – rivolto alla troppa gente che spesso canta all’unisono e – sempre e comunque – batte le mani, magari per poi nasconderle quando non è più aria.