Nelle ultime settimane la cronaca italiana, ma anche quella della Sicilia, è stata ricchissima di episodi riguardanti la violenza contro le donne, un fenomeno molto diffuso, troppo spesso non denunciato. Nel mondo ogni anno 5,3 milioni donne subiscono abusi da parte dei propri partner, 555 mila sono quelle che subiscono ferite gravi, 145 mila finiscono in Ospedale e 1200 vengono uccise. Strettamente legata alla violenza sulle donne è l’influenza che la stessa ha nei confronti dei bambini, basti pensare che nel mondo 8,8 milioni di minori sono testimoni diretti di violenza domestica. Partendo da questi dati, abbiamo cercato di comprendere la situazione a livello strettamente locale soffermandoci nello specifico in Provincia di Ragusa dove, dal 2011, opera il Centro Servizi Donne, un centro antiviolenza coordinato da Romina Licciardi. L’avvocato Sabrina Micarelli è Vice presidente Provinciale del Centro che fa parte del Coordinamento Donne Siciliane creato e diretto da Raffaella Mauceri che ha ben 26 sedi in tutta l’isola. Nel 2014, per quanto riguarda la Provincia di Ragusa, Il Centro ha aperto anche le sedi di Scicli, Pozzallo e, successivamente, Giarratana.
Micarelli, partiamo subito dai numeri, in questo comprensorio quante persone si sono rivolte a voi?
«Dal 2014 abbiamo ascoltato circa 50 donne tra Scicli e Pozzallo, bisogna dire che le modicane hanno un altro riferimento, ma qualcuna si è rivolta a noi, questi ascolti sono tutti avvenuti nei centri di Scicli e Pozzallo. Di questi 50 ascolti, una ventina sono proseguiti con una denuncia penale, una quindicina sono fiinite con una separazione giudiziale. Sempre delle 50 donne ascoltare per due è scattata la procedura di rifugio».
In cosa consiste?
«Alla rete sono assegnate delle proprie e vere case rifugio, noi ci rifacciamo alla legge regionale n 8 del 2011, la cosiddetta Legge Vinciullo che prevede le case affiliate ai centri antiviolenza, tutto avviene in ambito regionale, ma con protocollo stilato con il ministero per le pari opportunità. Le case rifugio sono lontane dai punti di residenza, sono sparse lungo il territorio regionale. A Ragusa, ad esempio, ancora non c’è una struttura simile, il nostro progetto è quella di poterne avere una al più presto per poter dare la possibilità alle donne di altre province di ricevere ospitalità anche da noi».
Come vengono sostenute economicamente le donne che vanno in rifugio?
«Vengono sostenute dal Comune d residenza che paga la retta della struttura. Da precisare che sia il comune di Scicli che quello di Pozzallo non hanno fatto alcun tipo di storie, non hanno battuto ciglio perché, ovviamente, in entrambi i casi c’erano i motivi per chiedere il rifugio. Una donna era stata presa a sprangate dal marito ed era incinta di 4 mesi, l’altra rischiava la vita perché seriamente minacciata dal marito.
Su 50 ascolti solo due sono finite in casa di rifugio perché, naturalmente, diamo priorità a quelle che sono più in pericolo, cerchiamo di fare una selezione».
Non c’è il pericolo che vengano sottovalutati dei casi?
«Appena abbiamo il sentore che c’è una minaccia di morte noi mettiamo a disposizione tutti i mezzi che abbiamo, basti pensare che nel primo rifugio siamo andati di notte con le nostre macchine, per il secondo il comune di Pozzallo ci ha fornito un Taxi, questa era una donna in cinta con tre bambini. Il giorno dopo il marito la cercava per mari e per monti, ma fortunatamente non è riuscita a trovarla. Il fine ultimo della casa rifugio è quello di creare una nuova vita alle persone ospitate con nuove opportunità, ma non è mai semplice garantire un lavoro o altri servizi. Qui la donna, aiutata da avvocati e da professionisti, inizia un percorso di ripresa psicologica, ma è molto difficile comunque tenerle lontane dalle famiglie, nei due casi prima citati una donna è ritornata dai genitori dopo un anno, l’altra è andata a vivere da parenti al nord».
C’è chi mente per raggiungere uno scopo
50 ascolti dal 2014, non sono pochi?
«Molto pochi, c’e molta paura a denunciare, paura di non essere credute, la paura anche di essere malviste dalla società. Premetto che la violenza domestica è trasversale, cioè non prerogativa, ad esempio, del basso ceto, ma la violenza, che non può essere mai giustificata, si attua anche e spesso in quei ceti o nuclei che si pensano siano perfetti. La differenza è che nei bassi ceti si denuncia di meno e, chi lo fa, spesso, è perché tenta di raggiungere un secondo fine come ad esempio un lavoro o dei soldi per sopravvivere».
Un bluff della disperazione?
«Questo, a dire il vero, accade molto con gli extracomunitari, con il tempo abbiamo imparato a individuarle e cercare di trattare queste persone con il giusto approccio.
Resta comunque il fatto che molte don denunciano, è provato che la donna, prima che presenti querela, a volte ci mette anni, anche decenni. Anni in cui subisce violenza di ogni tipo, fisica, psicologica, economica, quest’ultima assolutamente da non sottovalutare e pericolosissima. Sono quasi sempre donne che non lavorano, donne che dipendono dal marito o compagno, uomini che lasciano 5 euro sul comodino e pretendono che con quei soldi debba uscirci la spesa della giornata».
Molte di queste donne fanno finta di non vedere….
«Molte tendono a non voler vedere la situazione, entrano nella spirale della violenza, per loro è vita normale. Posso portare esempi di donne, spesso giovanissime, che vengono da me non per il centro antiviolenza, ma per essere seguite nella pratica di separazione, ma poi scavando scopro che queste hanno costantemente subito violenze psicologiche, ma per loro è un fatto normale.
Ma la cosa ancora più brutta sapete qual è? Quando i parenti più stretti o la mamma, alla richiesta d’aiuto rispondono “Te lo sei voluto”, è una frase che sento dire tutti i giorni».
Quando succedono casi di violenza c’è sempre la tendenza, specie per quanto riguarda la stampa locale, a cercare di chiedere che il carnefice non venga spiaccicato in prima pagina, come mai questa cosa?
«Questa è una linea molto sottile sulla quale ci troviamo a muoverci avvocati e giornalisti. Per quanto mi riguarda in primo luogo va rispettata la volontà della vittima, qui la situazione è molto delicata».
Ma perché continuare a tutelare le persone che ti fanno del male?
«Stiamo parlando di persone, le vittime, che subiscono un condizionamento psicologico forte che le porta anche a pensare che sono loro quelle sbagliate, quindi, nel caso in cui si decide di uscirne perché magari c’è stato un avvenimento che le ha portate a dire basta, rimangono sempre ancorate a quella situazione, perché pensano che lui possa cambiare, lo pensano fino all’ultimo. Dobbiamo quindi muoverci in questa linea sottile rispettando la vittima che, spesso, ha la seria preoccupazione che quella foto sbattuta in prima pagina possa metterla in pericolo, ma il diritto di cronaca va rispettato e la notizia va data perché l’opinione pubblica deve sapere.
Ancora sulla stampa, devo dire che trovo fastidioso il fatto, se ci fate caso, che alcuni giornali tendono sempre a giustificare il carnefice: quante volte sui giornale si parla di folle gesto o folle amore…? L’amore non è mai violenza. Il fatto è che, piaccia o non piaccia il concetto che sto per esprimere, siamo influenzati da una impostazione di famiglia di tipo patriarcale, viene difficile capire che siamo dei soggetti liberi e non siamo merce di nessuno».
Come si può prevenire il fenomeno della violenza?
«Denunciando appena si hanno i primi sentori, noi come centro cerchiamo di sensibilizzare le donne a partire dalle scuole in modo da intervenire sulle coscienze dei ragazzini, devono capire che tra maschio e donna c’è solo differenza di sesso, per il resto siamo uguali. Chiudo dicendo che chi si sente in pericolo e pensa che noi possiamo esserle d’aiuto, può chiamare la linea nazionale al 1522 oppure può chiamarci al 366288678»
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